Giuseppe Lazzati (1909-1986), politico e storico. Consigliere nazionale della DC dal 1946 e deputato alla Costituente, collaborò intensamente con Dossetti. Nel febbraio 1986, benché già malato, si rese disponibile a farne la presentazione in occasione del conferimento dell’Archiginnasio d’oro a Dossetti.
Giuseppe Dossetti
(Sala dello «Stabat Mater», Bologna 22 febbraio 1986 )
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È con viva commozione dello spirito che mi accingo al compito cui mi ha invitato il Sindaco con gesto di fiduciosa stima di cui gli sono grato e che adempio non senza una certa punta di disagio sentendomi impari al compito stesso né volendo, d’altra parte, riuscire meno attento al riserbo che don Giuseppe ama sia rispettato anche in una eccezionale occasione quale l’attuale.
Mi è chiesto dunque – come vuole la tradizione – di presentare la figura di don Giuseppe Dossetti nel momento in cui il Comune di Bologna gli conferisce l’Archiginnasio d’oro. E se è vero che a lui mi lega una più che quarantennale amicizia, è anche vero che la sua figura – umana e cristiana – è tale da rendere difficile rilevarne la statura che tanto più alta appare quanto più uno spontaneo atteggiamento di semplicità e umiltà sembra nasconderne i tratti salienti.
Conobbi Giuseppe Dossetti intorno agli anni Quaranta alla Università cattolica. Nato nel 1913, egli viveva con la famiglia a Cavriago ove il padre era farmacista; aveva frequentato a Reggio Emilia il ginnasio e liceo, si era poi iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza nell’Università di Bologna ove si era laureato con lode nel 1934 discutendo una tesi in Diritto canonico. Nello stesso anno venne a Milano, alla Università cattolica, iscrivendosi dapprima alla Scuola di perfezionamento in Diritto romano, continuando poi i suoi studi preferiti di Diritto canonico ed ecclesiastico, quale assistente di ruolo nella cattedra di Diritto ecclesiastico del prof. Del Giudice.
Nel 1940, a seguito di concorso nazionale, fu nominato assistente di ruolo nella cattedra di Diritto canonico della Università cattolica.Nel 1942 conseguì la libera docenza in Diritto canonico e Diritto ecclesiastico e fu chiamato a coprire l’incarico di Diritto ecclesiastico della Università di Modena. La sua brillante carriera universitaria, maturata in rigore di vita e di pensiero, lo porterà nel 1946 alla vittoria quale primo ternato del concorso per la cattedra di Diritto ecclesiastico e alla conseguente chiamata alla Università di Modena.
Che dinnanzi al giovane professore si aprisse la via a una brillante carriera universitaria può testimoniare il giudizio con il quale la Commissione gli assegnava il primo posto nel ricordato concorso, giudizio dal quale stralcio poche righe che delineano la statura dello studioso con singolare forza. «La Commissione unanime ritiene di trovarsi di fronte ad una tempra eccezionale di studioso e di giurista che unisce alla originalità un raro senso di equilibrio e che si inoltra nella valutazione dei più disparati indirizzi civilistici e canonistici con penetrazione singolare, finissimo senso critico, indipendenza di giudizio e con tale sicurezza da rivelare un’esperienza di studi mirabilmente matura, risultato di un complesso di doti di grande solidità».
Si potrebbe pensare che questa mirabile maturità fosse frutto di una concentrazione di interesse alle discipline giuridiche tale da chiuderlo in esse isolandolo da altri interessi. Ma, al contrario, gli anni nei quali il prof. Dossetti veniva elaborando la produzione scientifica oggetto del ricordato giudizio, erano quelli nei quali, con un piccolo gruppo di amici, concordi nel condividere il giudizio sulla inevitabile auspicata fine della infelice esperienza fascista, andava promuovendo un programma di preparazione a una innovatrice presenza politica capace di fondere, conservando vivo il senso delle distinzioni, una vivace ispirazione cristiana con una novità di concezione dello Stato che superasse sia quella liberale-borghese cui si rifaceva sostanzialmente lo stesso fascismo, sia quella marxista-collettivista negatrice di ogni libertà. Ebbi la fortuna di partecipare all’appassionato lavoro del gruppo cui collaboravano i professori Fanfani, La Pira, Padovani, Vanni Rovighi e che giunse alla stesura di un documento programmatico andato perduto, durante gli spostamenti sugli appennini emiliani, nel periodo in cui, a partire dal 1943, don Giuseppe entrò nella Resistenza svolgendo con la consueta generosità, attività di coordinamento politico per parte cattolica, esponendosi a ogni pericolo, nella zona di Cavriago ove la famiglia era tornata ad abitare durante la guerra. Negli anni ’44 e ’45 fu poi Presidente del Comitato Provinciale di Liberazione Nazionale di Reggio Emilia.
Quando, alla fine di agosto del ’45, io rientrai dai due anni di prigionia germanica, lo trovai membro della Direzione nazionale della Democrazia Cristiana della quale sarà vice-segretario nazionale in diversi periodi fino alle dimissioni dalla Direzione stessa nell’ottobre 1951. Nel periodo della partecipazione alla vita politica fu membro della Consulta Nazionale (1945-46); membro dell’Assemblea Costituente (1946-47) cui portò l’ineguagliabile contributo della sua intelligenza e preparazione; Deputato della prima legislatura repubblicana dalla quale si dimise nel luglio 1952. Il suo apporto alla vita politica, sia nel partito della D.C. sia nelle assemblee nazionali, la Consulta, la Costituente, la Camera dei Deputati, si caricò di significato di servizio alla comunità nazionale teso a imprimere alla comunità stessa un segno di novità di vita che ebbe i momenti più significativi prima nella scelta repubblicana, poi nella elaborazione di una Costituzione nella quale risultasse esaltato il senso profondo del rapporto vitale persona-comunità nei suoi profili giuridici, sociali, politici; [aggiunto a voce: un esempio tipico da questo punto di vista è l’ordine del giorno, presentato dall’on. Dossetti nel settembre del ’46, e la cui sostanza è trasfusa nell’art. 2 della Costituzione. Di questo articolo mi permetto di leggere alcune frasi: “La Sottocommissione, esaminate le possibili impostazioni sistematiche di una dichiarazione dei diritti dell’uomo; esclusa quella che si ispiri ad una visione soltanto individualistica; esclusa quella che si ispiri a una visione totalitaria, la quale faccia risalire allo Stato l’attribuzione dei diritti dei singoli e delle comunità fondamentali; ritiene che la sola impostazione veramente conforme alle esigenze storiche cui il nuovo Statuto della Italia democratica deve soddisfare, è quella che: a) riconosca la precedenza sostanziale della persona umana (intesa nella completezza dei suoi valori e dei suoi bisogni non solo materiali, ma anche spirituali) rispetto allo Stato e la destinazione di questo a servizio di quella; b) riconosca ad un tempo la necessaria socialità di tutte le persone le quali sono destinate a completarsi e perfezionarsi a vicenda, mediante una reciproca solidarietà economica e spirituale: anzitutto in varie comunità intermedie disposte secondo una naturale gradualità (comunità familiari, territoriali, professionali, religiose, ecc.) e quindi per tutto ciò in cui quelle comunità non bastino, nello Stato; c) che per ciò affermi l’esistenza sia dei diritti fondamentali delle persone, sia dei diritti delle comunità anteriormente ad ogni concessione da parte dello Stato”. Questo ordine del giorno, come dicevo, non fu sottoposto al voto della Sottocommissione ma è chiaramente trasfuso nell’art. 2 della Costituzione repubblicana ed esprime alcuni principi fondamentalissimi tra i fondamentali dichiarati nei primi 12 articoli della Carta stessa].
Da ultimo, nella prima Legislatura in uno sforzo di coerente applicazione nell’azione di governo del maggiore possibile coinvolgimento di popolo alla responsabilità decisionale politica in campo economico nel segno della giustizia e contro il privilegio; e, sul piano internazionale, nel segno di una indipendenza che, pure tenendo conto delle necessità del paese uscito stremato dalla esperienza fascista e dalla guerra di Liberazione, si premunisse da soggezioni troppo limitative della propria libertà.
Seguito e sostenuto con entusiasmo da pochi e giunto alla convinzione che la sua concezione politica rimaneva incompresa e respinta dalla maggioranza della D.C. e soprattutto dal mondo cattolico, per ragioni storiche largamente impreparato a responsabilità politica, nel luglio del 1952, come ho ricordato, si dimise da Deputato e si sottrasse a ogni impegno politico.
Lungo i sette anni della sua appassionata partecipazione alla vita politica della nuova Repubblica italiana mi pare di poter riscontrare due segni inconfondibili della sua ricca personalità: la tenacia con la quale si applicava ai compiti che costituivano i diversi momenti propri dell’impegno politico di cui portava responsabilità e la lucida apertura verso orizzonti di partecipazione delle masse dei lavoratori, fino a quel momento escluse di fatto da una attiva partecipazione alla vita politica, orizzonti da conseguire attraverso una coscientizzazione non fatta di pura conflittualità ma di appropriata comprensione dei rapporti, vero intreccio di diritti e di doveri, di cui dovrebbe vivere la città dell’uomo secondo il dettato della Costituzione.
Nel ’53 si trasferisce da Reggio Emilia a Bologna scelta quale sede preferita per i suoi progetti culturali. Qui infatti egli fonda il Centro di documentazione per gli studi religiosi cui imprime lo stile abituale del suo servizio illuminato e generoso vissuto in evangelico spirito di intensa ricerca di Dio cui la sua vita è già consacrata. Ed è in questo spirito che, anche per la spirituale consonanza con l’Arcivescovo Cardinale Lercaro e in comunione con altri la cui esperienza religiosa si era sviluppata in Istituti secolari, nel 1954 egli, obbedendo alla interiore azione dello Spirito che lo muove sulla linea di nuovo carisma, si ritrova nel filone della vita monastica nel senso più autentico del termine e fonda la «Piccola Famiglia dell’Annunziata» [non letto: sua scelta definitiva appagante quanto di più profondo muoveva in lui la stimolante azione dello Spirito]. Il Cardinale Lercaro ne approva la regola tuttora invariata ricevendo poi i voti dei primi sette membri: due fratelli e cinque sorelle. Ciò non gli impedisce, sempre in spirito di servizio e in adesione al desiderio del Cardinale, di accettare la candidatura a Consigliere comunale di Bologna per le elezioni amministrative del ’56 quale capolista indipendente della D.C. impegnandosi in una campagna elettorale senza limiti di generosa prestazione che lo porterà a sedere nel Consiglio comunale per due anni (’56-’58) facendo anche più stretti i vincoli con la città scelta come “sua” città. Nel frattempo egli si prepara al Sacerdozio che il Cardinale gli conferisce il 6 gennaio del 1959, incardinandolo nella Diocesi di Bologna e deputandolo a Superiore della comunità da lui fondata. Così, mentre si conclude la prima parte della sua vita, questa si apre a nuovo servizio, senza confini. La scelta di vita di colui del quale, misurando le cose con il solo metro umano, si era potuto pronosticare dapprima una significativa carriera universitaria nel campo delle scienze giuridiche, poi una presenza politica nel segno profondamente innovativo nella fondazione e gestione di una nuova città dell’uomo, quella «civitas humana» che aveva vagheggiato quale frutto di una ispirazione cristiana capace di tradursi in termini di autentica solidarietà e di vera laicità, tutto questo cambia in profondità la propria direzione.
Ma di tale scelta di vita che questa sera abbiamo la gioia di vedere onorata in modo insolito, pieno di alto significato, nella persona di don Giuseppe Dossetti, giunto a tale scelta in docilità alla guida dello Spirito vero artefice della scelta stessa, è troppo difficile dire in breve la pregnante ricchezza spirituale e sovrannaturale; è scelta di un assoluto primato riconosciuto a Dio, manifestata con nutrita di preghiera, come pure di ascesi e di generosa volontà di servizio.
E però mi sia permesso, concludendo, sottolineare due aspetti fra i molti che lo meriterebbero. Il primo è quello che stiamo insieme vivendo: il vincolo che lega la scelta di don Giuseppe, non solamente alla Diocesi di Bologna, ma alla città nella quale la «Piccola Famiglia dell’Annunziata» ha avuto la sua prima sede presso il Santuario della Madonna di S. Luca ed ora dispone di una nuova casa; essa è posta significativamente – se non sbaglio – all’inizio del portico che congiunge la città al Santuario stesso nella cui cripta sono custodite le spoglie mortali di madre Agnese, la mamma di don Giuseppe, che dopo aver svolto impareggiabile opera educativa su di lui adolescente e giovane, ne condivise la scelta di vita e dal 1959 al 1968 prestò la sua opera nella direzione del ramo femminile della Comunità. È un vincolo che assicura alla città la presenza di valori dello Spirito destinata ad animare e portare a pienezza di significato i valori umani che la città vuole non dico onorati ma attuati quale garanzia della sua pace in più viva e profonda visione del significato di una città a misura di uomo che è dire libera e giusta.
Il secondo aspetto è quello dell’aprirsi della «Piccola Famiglia dell’Annunziata» nell’Italia e nel mondo, sotto la preveniente azione dello Spirito e con il sostegno della divina parola penetrata con crescente intelletto d’amore, a servizi che, nella loro varietà, aspirano a realizzare, non solo tra diverse chiese, ma fra credenti e non, quella unità che, nella predilezione per gli ultimi e nel rifiuto dell’ingiustizia e della violenza, si fa porta aperta alla vera pace. In tale via la scelta di vita che questa sera onoriamo nella persona di chi ne è stato e ne è carismatico operatore fino alla ultima scelta di una significativa presenza a Monte Sole, assurge per tutti a sovrumana, profetica indicazione della via lungo la quale ricercare, senza stancarsi, modi e forme idonei a realizzare, e non solo a Bologna, secondo l’auspicio del Sindaco, che di cuore condividiamo, una società migliore, più giusta e più aperta alla partecipazione di ogni valido apporto.
E sia lecito suggellare l’auspicio nella dotta Bologna con l’antico augurio: Quod faxit Deus! [Che Dio lo faccia!]