Angelo Cocconcelli (Mons)

Angelo Cocconcelli (1912 – 1999), presbitero diocesano di Reggio Emilia, partecipò alla lotta partigiana; è stato compagno di scuola e amico di Giuseppe Dossetti. La sua testimonianza è un elemento molto prezioso per la ricostruzione della biografia e del contesto in cui operava Dossetti.

mons. Angelo Cocconcelli

Testimonianza su Giuseppe Dossetti

(trascrizione da nastro magnetico a cura di Enrico Galavotti, non rivista dall’autore)

Parlare di don Giuseppe Dossetti dopo tutto quello che si è detto e anche dopo tutto quello che si è scritto mi sembra una cosa inutile per molti. Io ho accettato di venire oggi soltanto per dirvi alcune cose che forse non sono scritte in nessun libro e che forse non avete mai ascoltate da nessuno

Soltanto perché «Pippo» Dossetti – come tutti lo chiamavano allora – era mio compagno d’infanzia

Abbiamo cominciato a fare la prima elementare insieme; quindi io l’ho seguito con lui fino alla quarta elementare. Poi lui era il figlio del farmacista e quindi era d’una classe un pochino diversa dalla nostra, che eravamo del popolino. E poi era sempre il primo della classe, neanche a parlarne: chi, alla fine dell’anno, si aspettava che non fosse lui a prendere il primo premio sempre – che allora il comune di Cavriago dava in tutte le classi – poteva restare abbastanza deluso, al massimo ci potevamo accontentare di un secondo premio. Era veramente una intelligenza straordinaria, la più bella intelligenza che io abbia incontrato nella mia vita

Ma io ricordo ancora quando i suoi avevano una farmacia a Cavriago che era ai margini dell’ampio sagrato della chiesa di San Terenziano, la chiesa principale. Il sagrato era una proprietà allora un po’ contesa e rivendicata fra la chiesa e il comune; ma era diventata ormai il grande passeggio del paese e quindi era veramente un posto ideale, perché c’era un gran parco sull’altura ombreggiata – alberi secolari – che dominava la piazza sottostante con il vecchio municipio; c’era il «pavaglione» (sapete cos’era il «pavaglione»? Era una parola che noi avevamo imparato dai francesi – perché ci sono molti francesismi nel nostro dialetto di Cavriago –: il «pavaglione» era il porticato, quel grande fabbricato con i portici, as ciameva al «pavajon», lo chiamavamo così allora); e poi di dietro c’era il grande palazzo dell’ultimo signore di Cavriago che era diventato invece poi la sede del Partito socialista e della Cooperativa socialista e su questo palazzo c’era un bandierone rosso che dominava si può dire tutta l’area circostante. Era quindi per noi la nostra vita. Io facevo il chierichetto e quando tutte le mattine mi alzavo alle sette per poter servire la messa, che allora era tutta in latino, bisognava dopo alla fine incontrarsi per forza con i Dossetti, che si prendevano di lì e andavano a scuola e ci trovavamo sempre assieme a scuola

Il padre di don Giuseppe era un uomo serio, un uomo di poche parole, tutto intento a fornire la sua farmacia delle ultime scoperte farmaceutiche. La madre, era una Ligabue, doveva essere molto severa se permetteva ai suoi figli di uscire per un’ora e non di più ogni giorno a fare un po’ di moto nel sagrato, dopo aver fatto i compiti e aver studiato la lezione (allora l’educazione, cari ragazzi, non era come adesso, era un po’ diversa). Vi racconto solo un fatto che è emblematico: un giorno l’arciprete del paese, che usciva sempre fuori sul sagrato, non vide i due fratelli Dossetti come al solito fare le capriole sul prato e allora disse: «cosa è successo?». È andato in farmacia e ha chiesto alla mamma: «come mai oggi non ci sono i suoi ragazzi? sono ammalati?». «No oggi non hanno fatto quello che dovevano fare e per questo sono rimasti chiusi e consegnati». E allora lui dice: «Beh, signora, andiamo a far pace. Vengo e li porterò fuori io». Sapete cosa ha risposto? «Lei, signor arciprete, pensi a fare il parroco, che a fare la mamma ci penso io!». E i ragazzi quel giorno non sono usciti, per dirvi com’era l’ambiente di quel tempo. Certo, io mi sentivo bene con lui».

1 appunto perché gli altri ragazzi del paese, siccome non erano della mia idea, ossia dell’idea, insomma, dei miei genitori, mi prendevano anche in giro perché andavo a servir messa; non mi trovavo come mi trovavo invece con i Dossetti. Siamo stati amici, amici proprio di giochi fino alla fine della quarta elementare, perché dopo la quarta elementare allora si poteva dare un’esame di maturità con cui si passava direttamente alla grande scuola, perché allora c’era una scuola sola, che era il ginnasio-liceo, le altre erano tutte scuole secondarie, ma la grande scuola era il liceo (non c’erano le scuole medie come ci sono adesso). Ebbene Dossetti, che era anche più giovane di me di due mesi, è passato dalla quarta elementare alla prima ginnasio. Aveva nove anni, poco più. E potete immaginarvi con la severità degli studi che c’era allora al liceo questo ragazzo che si distinse subito per questa sua meravigliosa intelligenza. Io però dopo un anno, dopo aver fatto la quinta, cominciai anch’io a voler studiare, pretendevo di studiare; il papà era un povero operaio, aveva tre bambini da mantenere, i due vecchi genitori, come poteva? Insomma, con l’aiuto del parroco sono riuscito a trovare un posto per andare a studiare che era il seminario di Marola. E sono stato a Marola cinque anni

Ci incontravamo con Pippo soltanto nei venti giorni di vacanza che io avevo d’estate, che eravamo subito lì. Potete immaginare, era di due anni più avanti di me: s’è laureato giovanissimo, credo che avesse venti-ventun’anni. E allora, si capisce, di che cosa si parlava? Si parlava dei nostri studi: il ragazzo si sentiva qualcuno già fin da allora, tanto che diceva: «ma va là, voialtri in seminario: i vostri otto in pagella non valgono i nostri sei al liceo classico!» Io poi ribattevo e dicevo: «sì, uscite dal liceo classico con dei bei voti, però dopo due anni che siete fuori se vi do da leggere una pagina di greco non siete più capaci di leggerla; se vi faccio tradurre una frase di Cicerone non siete capaci, mentre invece noi contuiamo a studiare il latino». Già, perché la liturgia era in latino, perché tutti i libri di scuola in teologia erano in latino, i compiti stessi bisognava farli in latino, insomma il latino diventava la nostra seconda lingua, allora – adesso le cose sono cambiate. Ci trovavamo soprattutto poi nelle idee perché a Cavriago erano successi dei grandi avvenimenti. Cioè quel paese che prima era in dominio completo del Partito socialista, con l’intervento delle squadracce fasciste aveva dovuto cambiare completamente il suo modo di vita, ma ci trovammo lo stesso sempre sulle stesse idee. Ma poi cos’è successo? È successo che io lo ritrovai che ero in seminario quando andavamo a Reggio dove c’era un famoso oratorio, l’oratorio era un gran cortile con annesse aule dove si raccoglievano tutti i ragazzi della città. Poveri ragazzi, senza niente, con dei cenci addosso, alla domenica dove andavano? Tante volte non avevano neanche i dieci centesimi per comprarsi il gelato; e allora tutti piovevano lì. E lì c’era un pretino famoso, perché lo ritenevano tutti un santo e si chiamava don Dino Torreggiani. Lo chiamavano «il piccolo don Bosco di Reggio Emilia» ed era uno meraviglioso per tutte le opere che lui istituiva. Ogni anno ne istituiva una nuova: è stato il primo ad andare a visitare gli zingari nelle loro carovane; è stato il primo ad andare addirittura nei circhi – difatti sulla «Domenica del Corriere», Beltrame una domenica fece vedere don Dino Torreggiani che dentro alla fossa delle tigri battezzava un bambino figlio di un circense. E così tutti quanti, gli scarcerati, quelli senza casa, tutti i barboni erano tutti suoi. Come faceva a tener dietro a tutta questa gente? Aveva un metodo meraviglioso: impegnava i suoi giovani. Perché era un formatore di coscienze, di giovani. E qui io ho trovato un Dossetti completamente diverso da quello che avevo conosciuto a Cavriago

Cos’era successo? Era rimasto conquistato veramente dall’ideale della perfezione cristiana, fino ad avere una pietà che lo portava per ore e ore in ginocchio davanti al Santissimo Sacramento, alla comunione quotidiana, alla meditazione e, addirittura, a leggere – me lo diceva lui – tutte le opere di sant’Agostino e addirittura la Summa Theologica di san Tommaso – che noi in seminario non abbiamo mai letta tutta – e addirittura l’altra Summa contra gentes; senza poi parlare che conosceva già tutta quanta la mistica religiosa, una cosa meravigliosa, con una preferenza particolare per la 2 pietà e la mistica di Camaldoli: la Medulla camaldulensis[Catechismo Camaldolese, seu, Medulla Camaldulensis doctrinae. Testo latino e versione italiana dei passi più salienti delle primitive regole camaldolesi, XV+73p, Edizioni Camaldoli, 1951 ?] è stato un pochino il suo libro di formazione spirituale. Ma quando si trattava di lavorare era sempre disponibilissimo. Don Tino Torreggiani, che sapeva cosa valeva quest’uomo, gli diceva: «se tu non lasci andare tutto quell’orgoglio che hai dentro di te, di sapere di essere superiore agli altri, tu non potrai mai essere un cristiano, perché un cristiano deve essere soltanto umile, umile e basta. Il Cristo ha detto: imparate da me che sono mite e umile di cuore». E quindi trovava anche tutti quanti i mezzi per fargli praticare l’umiltà. Vi racconto soltanto questo: al pomeriggio si faceva il catechismo a tutti i ragazzi che venivano lì a San Rocco e quando si trattava di dividere tutte queste cinque classi, anche quei pochi che frequentavano allora le classi professionali, allora noi seminaristi che venivamo da Albinea a tener dietro a tutti questi ragazzi venivamo destinati alle diverse classi. E allora don Dino diceva: «la quinta la diamo al tal seminarista, la quarta al tal’altro, la terza, la seconda, la prima, ecc.… », e poi diceva: «ai bambini che ancora non vanno a scuola diamo Pippo Dossetti». Beh, cosa succedeva? Lui non soltanto accettava di poter andare con loro, ma poi era talmente bravo che, mentre nelle altre classi voi lo sapete – quando andavate a dottrina se eravate bravi, sempre in silenzio ad ascoltare – cosa succedeva. Invece nella sua i bambini restavano incantati, bambini di sei anni restavano incantati. Tant’è vero che noi seminaristi, quando potevamo, andavamo anche noi ad ascoltare le sue lezioni e pensate che anche allora tutti gli esempi – perché coi bambini bisogna parlare di immagini no? Di paperelle, di esempi… – li prendeva dalla Bibbia. Ma in una maniera così perfetta e così bella che i bambini restavano là, non facevano nessuna fatica. Per dire l’abilità e la capacità di quest’uomo

Non vi dico poi quando cominciò a comprendere che cos’era il fascismo, che purtroppo aveva conquistato, si può dire, tutto il popolo italiano; in quanto che poi era avvenuta la Conciliazione con la chiesa, il Concordato, ecc. e si era dimenticato un po’ invece tutta quella dottrina perversa di cui avete sentito sotto che era quella dell’educazione alla violenza, al sopruso, a volere fare del popolo italiano un popolo di guerrieri, imponendo ai ragazzi di andare a scuola tutti quanti in divisa militare – “libro e moschetto fascista perfetto” si diceva, no? Fu allora che egli, si capisce, da buon cristiano, cominciò a comprendere che cosa si nascondeva sotto queste ideologie che allora dominavano, il comunismo da una parte, il fascismo e il nazismo dall’altra. E ricordo che ci trovavamo, anche per poterci istruire – perché allora non si poteva scrivere nessun articolo che non passasse per censura – nella canonica di Cavriago a rovistare la «Civiltà Cattolica», questa grande rivista dei gesuiti che aveva più di centocinquant’anni già [sic] e che, tra gli altri articoli, aveva sempre una “cronaca”. E lì l’abbiamo letta insieme e abbiamo compreso che cos’erano allora queste teorie che avevano alla base la violenza, la supremazia, l’orgoglio della razza, ecc. Tanto che a un certo momento ci siamo trovati che c’erano delle pagine bianche, con scritto di traverso: «censura»

Eravamo nel 1925, era venuta la famosa legge del fascismo che proibiva la libertà di stampa. Quindi si doveva stampare solo quello che voleva il regime, perché il Duce “aveva sempre ragione”, come si diceva. Non avete mica un’idea di quello che poteva essere l’Italia di allora (lo dico a questi ragazzi). E allora si comprendeva di più da quella parola – censura – che non dagli articoli che potevamo avere letto. È di lì che imparammo quello che era stato tutto il movimento cattolico contro il vecchio liberalismo, contro tutte le teorie che scaturivano poi dalla Rivoluzione francese; abbiamo capito che cosa voleva dire una vera e autentica democrazia, vivere in libertà, ed è stato quello che ci ha aiutato immensamente poi allora. Anche se ancora non erano venute, pensate, le reprimende papali, le tre famose encicliche del papa Pio XI: la Non abbiamo bisogno, che era contro il fascismo; la Mit brennender Sorge (con grande preoccupazione), che era contro il nazismo, e poi un’altra contro il comunismo. Il papa aveva visto giusto quali erano i grandi pericoli che potevano portare, poi come han portato, al conflitto spaventoso che poi ne è venuto. E ci siamo trovati quindi insieme. Per di più, ad aprirmi di più gli occhi, è stato il fatto che il mio vescovo mi mandò in Germania nel 1939. Non c’era ancora la guerra, ma scoppiò dopo qualche mese ed io ero proprio là al confine con la Polonia quando le orde tedesche hanno invaso la Polonia; e ho visto fin da allora gli eccidi, proprio autentiche barbarie, tanto che non riuscii poi a tacere per molto tempo e due anni dopo mi vennero ad arrestare; per fortuna mi salvò il Consolato italiano e mi hanno espulso dalla Germania. Quindi, potete immaginare, mi sono trovato con don Dossetti che eravamo proprio già maturi per prepararci ad una resistenza

E di fatti poi, dopo l’8 settembre, abbiamo cominciato subito. E con quale coraggio, con quale coraggio, il professorino di Milano e di Modena organizzava a Cavriago la resistenza contro i fascisti. Tanto che a un certo momento, non potendo più viverci perché ormai era stato scoperto, dovette fuggire in montagna dove ero fuggito anch’io e là egli comprese quale doveva essere la dottrina che dovevamo insegnare ai giovani, che certamente non era una dottrina di violenza

Dicevamo: noi per un sacrosanto diritto ci siamo rifiutati di andare a morire in un campo di concentramento tedesco, ma qui, facendo i partigiani, noi non siamo mica autorizzati a fare le rappresaglie e usare gli stessi metodi che usavano i nostri oppressori; noi siamo qui soltanto per difendere la nostra vita, perché questo è un sacrosanto diritto, e niente più. Tanto che là in montagna abbiamo dovuto dividerci tra cattolici – «fiamme verdi» – e gli altri – «garibaldini» – perché proprio non potevamo assolutamente accettare certi sistemi di lotta. E questa è stata una cosa grande per quest’uomo che del resto, come vi dico, faceva la comunione tutte le mattine e che quindi non poteva certamente non essere chiaro e preciso in quei principi in cui credeva e che egli poi metteva in pratica

S’è trovato alla fine della guerra, così, quasi senza volere, eletto presidente del Comitato di liberazione. E allora egli cominciò la sua propaganda. E in che cosa consisteva? Fondò subito un’organizzazione giovanile – l’O.G. si chiamava – dove, diceva, «la cosa più importante che dobbiamo fare adesso, qui a Cavriago, ma in tutta Italia, è quella di ricordare a tutti i giovani che fino a ieri hanno portato il moschetto fascista che quella non è la strada per un’umanità che vuole essere degna di questo nome, per un’umanità che vuole creare una civiltà». E difatti alle sue conferenze accorrevano un po’ tutti i giovani che erano stati disorientati dalla propaganda dei venti anni fascisti. E di lì l’hanno chiamato subito a Roma: avevano bisogno di un uomo, di un maestro come lui. Ed ecco arrivò che a Roma e diventò nientemeno vicesegretario del partito con De Gasperi, con cui qualche volta si è trovato anche in disaccordo appunto perché aveva una visione veramente meravigliosa, che forse nessuno ha saputo mai mettere a fuoco. Una volta ci trovammo in quattro, eravamo proprio nei primi mesi della Resistenza, in una canonica, quella di Calerno, da don Domenico Alboni – c’era don Simonelli, l’onorevole Marconi, c’era lui, ecc. – e lui spese due ore della sua formidabile dialettica per far capire che – pensate – noi cattolici non dovevamo fondare un partito, che dovevamo fondare un grande movimento, ma non un partito: il partito divide, il partito porta a odiare chi è dall’altra parte; noi dobbiamo essere quelli invece supra partes, dobbiamo dire sempre e a tutti che se vogliono vivere realmente nella democrazia devono vivere dialogando continuamente fra di loro; bisogna dialogare sempre, con gli amici e con i nemici, sempre, perché è di lì veramente che può saltare fuori… Erano nobili cose, ma gli avvenimenti invece andavano per tutta un’altra strada e allora non fu certamente possibile mettere in pratica un’ideale così bello com’era il suo (è quello che forse cerca di fare ancora qualcun altro al giorno d’oggi, di dire che non vuole fondare un partito, ma vuole dialogare con tutti quelli che ne hanno voglia; è uno dei suoi discepoli, ma credo che anche lui farà fatica a realizzare questo meraviglioso ideale)

Per tutto il resto, per quello che ha fatto da partigiano… che lui poi aveva chiuso dentro una parentesi, non ne ha mai più voluto parlare, appunto perché non era riuscito proprio lì a conciliare gli animi e a trovarsi a un certo momento in dialogo con gli altri, senza prendere del cattocomunista

E poi dopo, quando veramente ha scelto sul serio la vita monastica, noi gliel’abbiamo rimproverata, se sapeste. Una volta per venti minuti ho discusso, fin litigato con lui quando disse 4 che si ritirava completamente dalla vita politica e che non ne voleva più sapere. E io ho detto: «quali ragioni hai? Sei una delle poche bandiere che abbiamo, ma perché vuoi venire via?». Mi fece capire quali erano le ragioni: tanti che militavano nel partito non militavano per i nostri ideali, militavano per l’interesse, non per il disinteresse; e poi soprattutto perché si trovava circondato da giovani i quali, invece che ascoltarlo quando lui faceva queste meravigliose conferenze su quello che doveva essere l’ideale di un cittadino, pensavano che lui potesse in qualche modo trovare loro un posto per collocarsi da una parte o dall’altra. Insomma, dopo tanto discutere, ad un certo momento mi disse: «beh, insomma, se lo vuoi sapere, sai perché vengo via? Vengo via perché di dossettiani ci sono rimasto solo io!»

[mons. Angelo Cocconcelli]

[Bologna, Palazzo d’Accursio «Cappella Farnese», 9 marzo 1999]