Impera Cecilia (1997)

Suor Cecilia Impera (1925), è una delle prime 5 compagne di Dossetti e ha vissuto 40 anni a suo fianco nella Piccola Famiglia dell’Annunziata. In questa testimonianza resa a degli amici trentini sottolinea il primato della preghiera e il rapporto con la storia.


La Parola che crea


Nell’Epifania del 1996 abbiamo celebrato i 40 anni della nostra comunità, nata (idealmente) nell’Epifania del 1956. Quarant’anni di vita comune, di interessi comuni, di passioni comuni, molto condivise, di pensieri condivisi, anche di battaglie. Eravamo tutti piuttosto battaglieri e ognuno aveva le proprie opinioni, soprattutto all’inizio, quando nulla era stato definito, ma si era alla ricerca di una forma di vita assolutamente nuova ed originale; ci furono molte dispute, molte discussioni, una ricerca molto appassionante. Eravamo nati come comunità di studio, non come comunità religiosa. Come comunità di studio avevamo I’ambizione di rinnovare nel dopoguerra la cultura italiana. Ma attraverso la profonda riflessione sulla Scrittura, che è sempre stata una delle basi della nostra vita – direi la base fondamentale, e questa è una delle eredità che don Dossetti ci ha lasciato – abbiamo capito che prima di rinnovare la cultura italiana bisognava rinnovare lo spirito; che c’erano dei valori spirituali di estrema profondità, di estrema importanza come la preghiera, l’umiltà, l’obbedienza, il silenzio, che oramai la nostra società, che pur si diceva cristiana, aveva completamente smarrito. La guerra aveva veramente deformato la mentalità di tutti e evidentemente anche degli italiani, per cui parole come umiltà, obbedienza, silenzio, mitezza, dolcezza non erano più recepite.

Ma a questo cambiamento ci ha portato la Scrittura. Questa Parola di Dio che è una realtà creativa, l’unica realtà creativa; questo è stato l’insegnamento di Dossetti per quarant’ anni, non lo ha mai interrotto. In una delle tantissime lezioni che ha tenuto, in cui ha parlato dell’egemonia assoluta della Scrittura, ha detto:

La Parola di Dio è il seme incorruttibile che genera, conserva e fa crescere il cristiano e tutto il popolo di Dio, cioè la Chiesa; solo la Parola di Dio ha questa forza generante e creatrice nel senso assoluto. Ogni altra parola o mediazione staccata o prevalente sulla Parola di Dio presto si isterilisce, perde la sua forza generante e diventa infeconda. Abbiamo quindi la necessità di ristabilire l’egemonia della Scrittura su ogni altra fonte della formazione cristiana.
Quella egemonia deve tornare ad essere incondizionata, condizionante e giudicante.

La Scrittura è stata veramente la nostra forza generante e creativa; se la comunità monastica è nata, lo dobbiamo certamente all’ispirazione che ci è venuta dalla Scrittura e dal commento quotidiano che fin dai primissimi giorni abbiamo cominciato a fare. Ogni giorno commentavamo insieme la Scrittura, dopo averla preparata personalmente, singolarmente. Da questo è venuto tutto.

La nostra vita è stata generata dalla Scrittura; anche le scelte successive, le più importanti, le più decisive sono state tutte generate dalla Scrittura.

Questa comunità monastica è nata con il desiderio di recuperare i valori profondi, i valori forti della vita cristiana, della spiritualità cristiana, rifacendoci alla Scrittura e ai Padri della Chiesa, quelli cioè che ancora riportavano l’insegnamento diretto degli Apostoli ed erano quindi gli interpreti più genuini della Scrittura stessa. La scelta di creare una “fondazione” (lui ha sempre rifiutato questa parola, non ha mai voluto dirsi fondatore di una comunità: diceva che i fondatori sono stati i nostri santi, i santi che lui aveva scelto come patroni della nostra comunità) è stata molto contrastata, contraddetta, discussa, da molti non capita, non accettata, perché si riteneva erroneamente che la vita monastica volesse significare una fuga dal mondo. A questo don Dossetti ha sempre reagito con molta forza. Lui è riuscito, proprio per la sua genialità, a tenere insieme le due cose: una profonda vita spirituale, una ispirazione profonda attinta sempre alla Scrittura e alla preghiera e nello stesso tempo un’ azione concreta nel mondo della storia, però nei termini che adesso cercherò di dire, non nei termini comuni.

Ha sempre negato che questa scelta fosse dovuta, come alcuni avevano pensato, come una conseguenza di delusioni e amarezze patite.

Non mi pare di avere mai patito delusioni di nessuna sorta. Considero tutti gli anni prima della fondazione monastica e tutti gli impegni come anni preziosi, ricchi di frutti; non rinnego nulla, ma di tutto ringrazio Dio come preparazione efficace e provvidenziale che ha avuto il suo sviluppo coerente e maturo nella vita che con serena e consapevole deliberazione ho deciso di vivere, non abdicando a nulla ma tutto ricapitolando e dando ulteriore significato a tutte le precedenti tappe della mia esistenza.

Quindi non è stata una fuga in nessun modo, e di questo ci aveva parlato a lungo quando ci ritirammo in una delle tante fasi della nostra vita monastica; ci siamo ritirati su un monte, per essere un po’ distanti dalla città e dalle pressioni della gente, perché non eravamo in grado di sostenere la pressione, che si faceva sempre più forte, della gente che voleva un aiuto, un consiglio, che voleva consultarci. Però – diceva – questo ritirarci non deve essere una fuga, perché la prima cosa da fare deve essere sprofondarci nella preghiera. Se ci ritiriamo dal mondo e se in qualche modo non ci assumiamo delle responsabilità dirette ed immediate, questo ci obbliga ad un approfondimento della preghiera.

Però a questo approfondimento della preghiera deve accompagnarsi una vera consapevolezza soprannaturale dei problemi del nostro tempo. Non dobbiamo perderei nei dettagli della cronaca. Anzi, rispetto a questi è necessario un distacco sempre più grande, ma ci vuole una presa di coscienza vera delle grandi tragedie, dei grandi travagli e delle grandi prove che attraversano gli altri e a cui dobbiamo partecipare. Dobbiamo conoscere le cose del nostro tempo, i problemi del nostro tempo, la fame, la miseria, la guerra, i travagli del pensiero del nostro tempo e per questo occorre una intensità di preghiera e una ricerca di Dio molto sincera.

Su questo è sempre stato molto esigente, ci ha rimproverato molto di non essere abbastanza impegnati nella preghiera, di trascurare ogni tanto la preghiera, di perdere qualche minuto della preghiera. Siamo dei ladri, gridava molto spesso, siamo dei ladri quando rubiamo qualche minuto alla preghiera; siamo dei ladri e dobbiamo risponderne alla società, dobbiamo risponderne alla Chiesa e a tutta l’umanità, perché sottraiamo all’umanità il suo alimento naturale, la sua forza vitale. E poi ci rimproverava di essere tiepidi nella ricerca di Dio, diceva che se le cose vanno male nel mondo siamo responsabili come tutti gli altri, come quelli che sono impegnati direttamente, perché la nostra ricerca di Dio è troppo tiepida, perché la ricerca di Dio è una cosa grave e profonda, fino adesso abbiamo fatto troppo poco. Ci deve essere una sofferenza vera, una partecipazione reale al dolore degli altri e questo dobbiamo chiederlo. Chiedere l’esperienza dei drammi del nostro tempo; un’esperienza non intellettuale ma interiore, di vera compassione sofferta. Nella nostra preghiera dobbiamo vedere tutto, non i dettagli ma i mondi della sofferenza, delle difficoltà e delle prove. Questa è sempre stata la sua linea. Molti non hanno capito i suoi interventi in questi ultimi anni, ma erano solo ispirati dalla sua profonda preghiera, dalla sua profonda ricerca, intensa ricerca di Dio.

Una volta citò una frase di Tolstoij: “non è possibile purificarsi da solo o da soli; purificarsi sì, ma insieme. Separarsi per non sporcarsi è la sporcizia più grande”. Non si può separarsi per diventare più puri. Non è la mia perfezione personale che mi interessa – diceva sempre – quando mi separo dal mondo: è la ricerca di Dio, perché questo è il sostegno del mondo, questa è la forza del mondo. Bisogna immettere questa forza e volontà di Dio, immetterla ancora nel mondo, è stata persa. Gli uomini l’hanno smarrita proprio perché si sono smarriti nel quotidiano, nelle cose quotidiane. Bisogna invece recuperare questa forza profonda, che è il movente della storia.

Non ha mai voluto separarsi dalla Chiesa, anzi! La nostra comunità è diversa da tutte le altre; ecco perché non accettava la qualifica di contemplativo, né tanto meno quella di monaco; perché in realtà la nostra comunità voleva essete immersa totalmente nella Chiesa e quindi soggetta alla Chiesa. È questa, credo, la grande novità rispetto agli altri istituti tradizionali, monastici, che non sono soggetti direttamente all’autorità della Chiesa, anzi, sono chiamati ‘esenti’ perché sono approvati dalla Chiesa ma non sono soggetti all’autorità della Chiesa. Don Giuseppe ha voluto invece la soggezione al vescovo locale. Quindi la nostra è una comunità diocesana, inserita nella Chiesa locale, alle dipendenze del vescovo locale. E dovunque andiamo, noi dipendiamo dal vescovo locale.

Forse qualcuno ha letto un articolo scritto dal suo direttore spirituale, il quale lo rimproverava di voler restare su due piani: su quello spirituale ma anche su quello politico, storico, concreto. Lo disse lui stesso: “Dio mi aveva invece chiamato per seguire questa doppia linea”. E lui è riuscito, proprio per la sua capacità, ad avere una spiritualità molto profonda e allo stesso tempo un interesse molto vivo per la sorte dell’umanità e per tutti i problemi dell’umanità.

Vorrei farvi capire con quale passione viveva i problemi del mondo, con quale sofferenza sentiva, per esempio, la fame, la miseria della gente; con quale dolore sentiva anche le miserie della Chiesa, quando la Chiesa non era a quel livello di purezza, di santità che lui desiderava; ne soffriva intensamente.

C’è un episodio che vale la pena di ricordare. La guerra del Golfo fu per lui una ferita profondissima. Allora mi trovavo in India, e ho ricevuto le sue lettere (ne conservo ancora due) nelle quali diceva il suo strazio. Appena ebbe notizia che la guerra era scoppiata, il 17 gennaio 1991, fuggì subito senza dire niente a nessuno per andare in Terrasanta e in Giordania, dove erano le nostre comunità: sia perché voleva essere più vicino alla zona dove si svolgeva il combattimento, partecipare e conoscere più da vicino la situazione; sia perché voleva essere vicino alle nostre comunità che si trovavano in pericolo. Tutti lo hanno disapprovato, ma lui non ha ascoltato nessuno, ha voluto andare. Ha sofferto immensamente. Tornò in Italia alcuni mesi dopo, alla fine della guerra, quando già si sapeva delle decine di migliaia di morti tra la popolazione civile, del migliaio di bambini morti perché non avevano le medicine a causa dell’ embargo, delle centinaia di migliaia di soldati morti sul terreno della battaglia… era veramente desolato. Disse:

probabilmente per secoli i cristiani non potranno più parlare ai musulmani di cristianesimo e del Vangelo dell’amore. Come sarà possibile? Se una nazione è cristiana, se un continente è cristiano… l’Europa cristiana si è gettata in maniera così brutale, così violenta contro un popolo inerme e indifeso come era in quella situazione il popolo musulmano; come potrà ancora la Chiesa parlare di Vangelo e del Vangelo dell’ amore?

Il suo giudizio veniva sempre dal Vangelo; il suo giudizio storico era quello che la Scrittura ci aveva insegnato. Ce lo diceva sempre: attraverso la Scrittura noi possiamo apprendere il criterio con cui Dio giudica la storia; e noi dobbiamo assumere quello, non i nostri criteri di natura economica, politica, sociale, no! È il criterio di Dio che dobbiamo assumere. Ma il criterio di Dio ci viene trasmesso dalla Scrittura ed è con questo che possiamo giudicare la storia e giudicarla con verità. I suoi giudizi storici avevano una radice spirituale, non erano fondati su ragioni concrete ed immediate, della cronaca del momento: erano fondati sulla Scrittura

Altrettanto si potrebbe dire della preghiera. Abbiamo dei documenti sulla preghiera – spero un giorno saranno pubblicati – che sono di una ricchezza inesauribile.

Il primato della preghiera: quanto ha insistito su questa cosa! E si chiedeva anche: è ancora lecito oggi, al nostro tempo, ai popoli del nostro tempo, parlare del primato della preghiera? Di fronte ai problemi immensi che abbiamo di fronte a noi (ci diceva: riordinare il tessuto sociale, politico, culturale a tutti i livelli, un tessuto estremamente dissolto e degradato; soddisfare le esigenze materiali, urgentissime, di almeno un miliardo di uomini che non hanno da mangiare, che muoiono di malattie curabili; di un miliardo di sofferenti di ogni genere, di emigrati, di profughi, di drogati, di emarginati, di persone dissolte nella loro umanità essenziale che bussano alle nostre porte…): possiamo ancora parlare del primato della preghiera? Dobbiamo veramente dire ai cristiani di oggi che prima di tutto dobbiamo pregare? Insisteva: primato non vuol dire esclusività; primato vuol dire che la preghiera deve precedere qualsiasi attività, qualunque intervento; qualunque azione a qualunque livello (culturale, sociale, politico) non ha efficacia se non ha il suo sostegno nella preghiera.

È solo nella preghiera che l’uomo di azione può trovare la forza di operare efficacemente. Senza preghiera l’azione non è efficace, rischia di fare del male anziché del bene. Se non è radicata nella preghiera non ha molte probabilità di essere efficace; e se anche fosse efficace, non è duratura.

Anche all’uomo di oggi, con tutti i problemi da cui può essere preso, bisogna chiedere che premetta sempre la preghiera. Questo ce l’ha insegnato, su questo ci esaminava e ci rimproverava molto quando dovevamo confessare che per una ragione o per l’ altra avevamo trascurato la preghiera o avevamo perso dei momenti di preghiera; era severissimo. Non lo ammetteva per se stesso, accusandosi di essere un ladro; perché aveva rubato del tempo alla preghiera; e lo diceva piangendo, tanta era la sua convinzione che queste mancanze pesano sul mondo più di tutti gli errori a livello sociale o politico. Questo pesa: il fatto che non si trasmetta questa linfa vitale, che non si immetta questa forza vitale nel mondo. Non lo poteva tollerare, diceva: “questo è il nostro compito, noi abitualmente non facciamo interventi diretti perché il nostro compito è questo, primario”. Anzi, auspicava che almeno per qualcuno questo diventasse il compito essenziale ed esclusivo. In qualche caso questo è avvenuto, non per tutta la comunità, ma per qualcuno sì.

Un’ altra delle cose per cui aveva una sensibilità molto profonda era la presenza del demoniaco nella storia. Lo denunciò fortissimamente nella prefazione al libro Le querce di Montesole, che raccontava l’eccidio di Marzabotto da parte delle SS. Nella prefazione cercò di presentare questa azione come demoniaca, spiegando come la mistica nazista preparava i giovani alla violenza, all’odio sistematico, voluto, e li preparava ad uccidere “con intelligenza e con tecnica”. E questa tecnica, che era alla base della formazione delle SS, veniva denunciata da Dossetti come una mistica demoniaca. Ha sempre avuto un senso fortissimo della presenza demoniaca della storia. Anche questa denuncia era un modo spirituale di giudicare la storia. Ed è per esorcizzare questa presenza demoniaca nel mondo che si esige la preghiera e che si esige la riflessione sulla Scrittura. Una delle ultimissime cose che mi disse fu raccomandarmi la preghiera come forza di esorcismo. Siccome sono lontana, da sola, in India, la preghiera è molto più difficile perché non ho la comunità con me, ma me la raccomandò come la cosa essenziale e fondamentale. La preghiera come forza di esorcismo contro le potenze del male. Ha fatto molte omelie su questo tema. La volontà di potere, di dominio che si esprime nel mondo dovunque, è proprio una delle componenti della presenza demoniaca nel mondo.

Concludo con un suo pensiero importantissimo, ancora sulla preghiera

Disse: la preghiera è la vera preparazione alla morte. Durante il primo decennio della vita che abbiamo condotto insieme, l’ho sentito più volte dire espressamente che aveva paura della morte, ma non si vergognava di questo, perché diceva che anche Gesù nell’orto degli ulivi ha sudato sangue pensando alla sua morte e a quello che lo aspettava. Però negli anni successivi non ne ha più parlato, perché ciò che ci prepara alla morte è la preghiera, che è una forma di morte. Se veramente pratichiamo la preghiera con verità e intensità, siamo pronti alla morte. Ogni volta che noi preghiamo, un frammento del nostro essere si trasferisce nell’eterno. E se noi continuiamo a pregare con continuità e insistenza, tutto il nostro essere lentamente e progressivamente si trasferisce nell’ eterno, così che quando la morte verrà non troverà più nulla di noi, perché già tutto è stato trasferito, e allora la morte non fa paura. Anzi, è la preghiera che ci introduce nella morte: “cerchiamo la morte come inseguiamo la gioia, perché la morte è l’introduzione alla vita eterna”.

(pubblicato in: Il Margine, 17 – 1997_4)