Testi di G. Dossetti
1. – da: Appunto personale (1954) (in: La coscienza del fine, Ed. Paoline 2010, p. 222-223)
Il lavoro di un cristiano, e di una comunità cristiana, deve immergersi nella storia, essere seriamente in relazione ad essa, però non può esaurirsi in questa dimensione. Deve imparare continuamente ad andare oltre, aperto alla dimensione escatologica, all’attesa e all’invocazione del ritorno del Signore che chiuderà la storia.
Va fatta spesso questa considerazione: per ogni buon cristiano, certo anche per noi, nei momenti in cui viviamo di fede, viene più o meno spesso il desiderio della nostra fine personale, della conclusione della nostra giornata terrena, dell’incontro personale con Cristo, del Paradiso. Orbene per noi ci deve essere in più e particolarmente non solo questo, ma il desiderio del fine universale «che Dio sia tutto in tutti», della conclusione dell’oggi temporale, dell’ inizio dell’oggi eterno, dell’incontro universale di tutta l’umanità e di tutto il creato col Cristo, Gesù. Questo desiderio della Parusia per noi tanto più è esigito:
– in funzione del nostro essere comunitario: credo sia la misura ultima e definitiva del superamento di ogni abito individualistico, e vero inizio di un abito comunitario cristiano, desiderare il fine ultimo, non solo personale ma universale, lasciarsi penetrare dal mistero dell’attesa e della implorazione dello Spirito e della Sposa che dicono «Vieni Signore Gesù». La nostra comunità, nata ma infante, sarà comunitariamente adulta quando sarà cresciuta in questo desiderio della fine universale;
– e ancora in funzione del contenuto specifico del nostro impegno di lavoro e di ricerca: un lavoro e una ricerca che non può e non deve evadere dalla storia, deve immergersi in essa, prenderla molto sul serio, tendersi nello sforzo di comprenderla dal di dentro: certo. Ma se questo esige che nulla sia trascurato… non può però bastare: dopo averla attraversata deve riemergerne e imparare ad andare continuamente oltre essa.
2. – da: Discorso alle sorelle sul lavoro secondo la Regola (1982)
Dossetti, parlando alla sua comunità, denuncia il rischio di una mentalità sociale ed economica, di cui il lavorare concreto di oggi ne è l’incarnazione, che nega i criteri dell’Evangelo. Ciò pone, per il cristiano, la grande sfida di come stare in questo mondo senza essere sottomessi ad esso.
[…] Il lavoro oggi si inserisce in un contesto sempre più organizzato secondo criteri assolutamente eterogenei ai criteri dell’Evangelo: per es. il guadagno. Criteri che costituiscono una mentalità non solo dominante ma anche attirante nel vortice le singole persone che debbono lavorare, altrimenti la realtà interiore si frantuma. La vita cenobitica stessa è ispirata a un criterio di uscita dalla mondanità, perché non ci sarebbe un grande bisogno di fare una vita cenobitica se non ci fosse ormai sempre di più un mondo che costringe i cristiani ad organizzarsi secondo la purezza dell’Evangelo.
I primi tempi, nei tempi del paganesimo, quando i cristiani erano una minoranza, hanno fatto questo. Vivevano in comune, sottraendosi al sistema, per ciò vendevano le loro cose per non dipendere dal sistema, vivendo in comune in povertà, ecc. Oggi siamo in una situazione che sta tornando a quel punto, anzi è più avanzata ancora che il punto di Roma o di Grecia.
Certo non possiamo abbandonare il mondo a se stesso, ma non possiamo nemmeno subirne le leggi, delle leggi le dobbiamo rifiutare. E soprattutto dobbiamo rifiutare la legge del guadagno e di mammona, la legge di un’organizzazione sociale tutta orientata a quel principio.
3. – da: Intervento su Il lavoro nella Piccola Regola: tra grazia e progettualità, al convegno su Il lavoro nel pensiero di Giuseppe Dossetti, 15-16 ottobre 2011
Dalla lettura della Regola della comunità, emerge un aspetto che libera il lavoro da ogni ricerca di affermazione idolatrica ed egoistica di sé, un semplice punto di riferimento che sposta radicalmente la tensione interiore.
Veniamo dunque alle determinazioni del paragrafo 10 della Piccola Regola. Lo leggiamo:
Il lavoro: è obbedienza, prolungamento dell’eucaristia e della Liturgia delle ore e oggetto normale della nostra offerta: quindi preordinato, custodito e compiuto con zelo religioso; strumento regolare della nostra mortificazione, del nostro amore per le anime e del nostro annuncio abituale, da preferirsi normalmente ad ogni altra penitenza od opera di bene. Salvo ragioni di salute deve essere almeno di 35 ore alla settimana.
[…] Il lavoro è offerta perché ciò che Dio ci dona di fare non è nostro e non è un tesoro da trattenere gelosamente, ma da restituire a Lui e ai fratelli in rendimento di grazie, in piena comunione con le gioie e le speranze, con le fatiche e le sofferenze dei fratelli e di tutti gli uomini, continuando anche in questo l’eucaristia.
Non so se vedo bene, ma a me pare che questa indicazione che fa del lavoro una offerta di sé, di tutto se stessi a Dio e ai fratelli, veramente sia il vertice del pensiero della PR riguardo al lavoro, perché imprime al lavoro un’intenzionalità capace di riscattarlo sia dal rischio di una affermazione idolatrica ed egoistica del proprio io e dei propri interessi, sia dal rischio opposto di non dare nessun peso e consistenza al nostro impegno mentre esso è chiamato ad essere la prima e fondamentale esplicitazione della personalità umana (come leggevamo all’inizio), luogo dell’ubbidienza a Dio e della responsabile comunione e collaborazione con i fratelli, luogo dell’amore che, come sottolinea ancora la Nota Integrante, è generante la comunità. [L. Daolio]