Suor Maria Gallo è una della prime cinque sorelle che con Dossetti e un altro fratello diedero vita alla comunità. Lo presenta sinteticamente parlando di: Famiglia e studi – Carriera universitaria e riflessione politica – Resistenza e vita politica – Bologna: il cardinal G. Lercaro e gli inizi della famiglia religiosa – La Piccola Regola della Piccola Famiglia dell’Annunziata – Il consiglio comunale – Sacerdozio e vita monastica – Lo statuto del 1986 – Preghiera e vigilanza sui drammi del mondo – Il Concilio – La Terra Santa – L’India e i grandi popoli dell’Asia – Ritorno in pubblico – Un povero che serve con tutte le sue forze – Parola ed eucaristia – Ultima malattia e morte
Traccia di profilo del padre della comunità
Chi scrive ha vissuto più di quarant’anni nella comunità fondata da Giuseppe Dossetti, cioè da quando è nata. È questo l’unico titolo di cui può disporre per offrire una testimonianza.
Del resto è troppo presto per tentare di delineare un ritratto, sia pure approssimativo, di una personalità così ricca, che ha lasciato un segno vigoroso in tanti ambiti della vita ecclesiale e civile del nostro paese e non solo, “nella Chiesa e nella storia”, tenendo insieme i due termini a lui cari e che cercherò di spiegare più avanti. Inoltre quando si vorrà farlo, questo ritratto, sarà necessario il concorso di molti, come molti, appunto, sono stati gli ambiti del suo servizio.
Mi propongo più semplicemente di esporre alcune linee forti del suo magistero, come ho potuto coglierlo dall’interno della nostra vita comunitaria. Mi propongo di farlo utilizzando soprattutto i suoi scritti, i più antichi e i più recenti, tutti significativamente concordi sui punti supremi. Premetto un riepilogo veloce della sua biografia[1].
Famiglia e studi
Giuseppe Dossetti nasce il 13 febbraio 1913 ed è battezzato nel giorno dell’Annunciazione il 25 marzo seguente. Il padre, farmacista a Cavriago (Reggio Emilia), è piemontese, la madre reggiana. Affetti familiari intensissimi e solida formazione cristiana. Suoi maestri di vita cristiana: la madre, che poi lo seguirà nella vita consacrata e sarà la prima superiora del ramo femminile della comunità, don D. Torreggiani, il prete degli zingari e dell’iniziazione alla liturgia, mons. L. Tondelli che gli trasmette l’amore alla parola, di Dio[2].
Don Giuseppe studia a Reggio Emilia e poi all’università di Bologna, dove si laurea con lode nel 1934 discutendo una tesi di diritto canonico. In quello stesso anno si iscrive a Milano all’Università Cattolica continuando i suoi studi di perfezionamento in diritto romano e quelli preferiti di diritto canonico ed ecclesiastico. Nel 1940, a seguito di concorso nazionale, è nominato assistente di ruolo alla cattedra di diritto canonico dell’Università Cattolica. Nel 1942 consegue la libera docenza e nel 1946 vince il concorso per la cattedra di diritto ecclesiastico all’università di Modena. Il giudizio della commissione è estremamente lusinghiero e lascia ben intendere quale brillante carriera si aprisse davanti al giovane professore. Cito: «La commissione unanime ritiene di trovarsi di fronte ad una tempra eccezionale di studioso e di giurista che unisce all’originalità un raro senso di equilibrio e che si inoltra nella valutazione dei più disparati indirizzi civilistici e canonistici con penetrazione singolare, finissimo senso critico, indipendenza di giudizio e con tale sicurezza da rivelare un’esperienza di studi mirabilmente matura, risultato di un complesso di doti di grande solidità».
Carriera universitaria e riflessione politica
In quegli stessi anni, mentre elabora i suoi lavori scientifici, Dossetti è tutt’altro che chiuso ad altri interessi. Anzi, proprio in quegli anni, con un piccolo gruppo di amici, va formulando «un programma di preparazione a una innovatrice presenza politica capace di fondere, conservando vivo il senso delle distinzioni, una vivace ispirazione cristiana con una novità di concezione dello stato, che superasse sia quella liberale-borghese cui si rifaceva sostanzialmente lo stesso fascismo, sia quella marxista-collettivista negatrice di ogni libertà»[3].
Resistenza e vita politica
Gli anni 1943-1945 sono quelli della sua generosa partecipazione alla resistenza. Nel 1945 è membro della direzione nazionale della Democrazia Cristiana, della quale sarà vicesegretario nazionale in diversi periodi fino alle dimissioni nell’ottobre 1951. Nel 1945-1946 è membro della consulta nazionale, nel 1946-1947 partecipa all’assemblea costituente portandovi l’ineguagliabile contributo della sua intelligenza e preparazione; è, infine, deputato della prima legislatura repubblicana dalla quale si dimette nel luglio 1952. La sua partecipazione alla vita politica[4] porta il segno fermissimo del servizio alla comunità nazionale. Momenti particolarmente significativi del suo apporto: la scelta repubblicana, il contributo all’elaborazione di una costituzione, nella quale risultasse esaltato il senso profondo del rapporto vitale persona-comunità, lo sforzo coerente per il maggiore coinvolgimento del popolo nella responsabilità decisionale politica, in campo economico per la giustizia e contro il privilegio, in campo internazionale per una indipendenza attenta a non cadere in soggezioni troppo limitative della propria libertà e per la pace[5].
Bologna: il cardinal G. Lercaro e gli inizi della famiglia religiosa
Dal ’53 comincia una nuova fase, il trasferimento a Bologna e la fondazione del Centro di Documentazione per gli studi religiosi. Bologna fu scelta proprio in vista di quel grande vescovo, il cardinale Giacomo Lercaro, al quale don Giuseppe volle affidare la paternità spirituale della piccola famiglia religiosa che stava nascendo intorno a lui e la guida di un cammino che si prospettava molto ricco, ma anche difficile e non ancora chiaro. Nella Pentecoste del ’54 don Giuseppe scriveva: «La comunità non è fatta, ma si va facendo, è una comunità in cammino alla ricerca di Dio e della sua santità»[6].
Dapprima convennero al Centro intorno a don Giuseppe giovani studiosi di discipline religiose. Con grande slancio è un po’ di ingenuità si sperava di poter offrire «un qualche contributo al rinnovamento della cultura teologica italiana», ma quest’impresa si congiungeva «all’aspirazione ancora più forte a proporre, allo stesso tempo, un itinerario di vita spirituale che avvalorasse e ispirasse la ricerca scientifica»[7]. Anche allora dunque le ricerche specifiche dei singoli erano ispirate e trascese da una ricerca più totalizzante e profonda, «la ricerca di Dio e della sua santità».
Passarono pochi anni e un evento imprevisto impresse una nuova svolta: «Dalla fine del’55 divenne di fatto impossibile per don Giuseppe un vero impegno personale di studio, organico e programmato, in comune con altri»[8]. Restava e si fortificava per don Giuseppe e per la sua piccola famiglia religiosa «la ricerca di Dio e della sua santità»[9].
La Piccola Regola della Piccola Famiglia dell’Annunziata
Il 22 novembre 1955 il cardinal Lercaro approvava la Piccola Regola della comunità. Più che di regola si dovrebbe parlare di un compendio di principi spirituali. Essa fu scritta di getto da don Giuseppe l’8 settembre 1955, festa della Natività di Maria, e il 6 gennaio 1956, Epifania del Signore, don Giuseppe e i suoi primi sei compagni, un fratello e cinque sorelle, deponevano i loro primi voti nelle mani del cardinal Lercaro.
Il consiglio comunale
A questa svolta ne segui subito un’altra che poteva sembrare di segno opposto e che tuttavia fu determinata proprio dall’obbedienza religiosa: in spirito di servizio e di obbedienza don Giuseppe accetta la candidatura a consigliere comunale di Bologna per le elezioni amministrative del ’56. Siede al consiglio comunale come capo dell’opposizione per due anni (’56-’58), dando un contributo creativo, generoso, prezioso, alla vita della città, come gli sarà ampiamente riconosciuto da amici e oppositori, fino al conferimento il 22 febbraio 1986 dell’Archiginnasio d’oro e ancora il 16 dicembre 1996 dal sindaco Vitali, nel suo intervento al consiglio comunale in ricordo di don Giuseppe Dossetti[10]. Per non parlare di tutte le altre voci.
Sacerdozio e vita monastica
Conclusa ormai anche questa fase della sua vita, don Giuseppe si prepara al sacerdozio, che gli è conferito il 6 gennaio 1959 dal cardinal Lercaro. È incardinato nella diocesi di Bologna e si dedica ormai risolutamente con la sua Piccola Famiglia a quella «ricerca di Dio e della sua santità» che non ha mai cessato di essere l’ispirazione ultima e unificante tutti i diversi passaggi della sua vita.
Seguono circa trenta anni di silenzio, dominati ormai interamente da quei principi fissati nella Piccola Regola dell’8 settembre 1955. Si tratta di 3 paginette soltanto, ma così dense che proprio mi è impossibile riassumere. In queste paginette c’è tutto don Giuseppe, il suo cuore e il suo magistero, riconfermato poi mille volte in seguito.
A mio parere il suo pregio non è l’originalità, ma il suo contrario. La Piccola Regola è un distillato molto limpido e puro di ciò che di più universale e sicuro ha maturato l’esperienza millenaria della Chiesa nella sequela del suo Signore.
C’è un senso fortissimo di adorazione e di gratitudine: l’essere e la vita sono puro dono dell’infinita misericordia di Dio. C’è un senso acuto del niente dell’uomo e insieme della gloria alla quale è chiamato se acconsente al dono e ad esso si abbandona «con umile risolutezza», se si lascia trasformare dall’ascolto della parola di Dio e dalla partecipazione ai divini misteri, non da solo, ma nella Chiesa, quella porzione di Chiesa nella quale più direttamente è posto a vivere e nella grande Chiesa del cielo e della terra, in comunione con tutti gli angeli, i santi, la santissima Madre di Dio, tutti gli uomini di tutte le generazioni, anzi, perfino, tutto il creato, poiché tutto è abbracciato dalla croce gloriosa del Salvatore e tutto attende la redenzione.
Lo statuto del 1986
Diversi anni più tardi don Giuseppe scrisse lo statuto della Piccola Famiglia, che fu approvato dal card. G. Biffi, e volle che fosse solo un’«associazione diocesana pubblica di fedeli», perché ad essa potessero appartenere monaci, monache ed anche sposi, perché lo scopo del nostro convivio, sia nello stato monastico che in quello coniugale e parentale, fosse unicamente «lo sviluppo coerente e continuo della vita battesimale… la lode di gloria della Trinità santissima, l’attesa vigilante e amorosa del ritorno del Signore Gesù… l’intercessione incessante per la Chiesa di Bologna (cioè ogni Chiesa particolare nella quale la comunità sia inserita), per tutta la Chiesa e per tutti gli uomini».
Preghiera e vigilanza sui drammi del mondo
Sono anni di intensa concentrazione nella preghiera, nell’ascesi, nell’approfondimento biblico, nell’immersione nel mistero della vita sacramentale della Chiesa e insieme di vigile attenzione alle vicende della storia, ai problemi della Chiesa, ai dolori e ai problemi degli uomini, vicini e lontani, anche molto lontani[11].
Sono gli anni in cui si pensa alle Chiese d’oriente per nostalgia dei loro tesori spirituali che la divisione ci ha negato, per intenso desiderio di unione, si pensa ai grandi popoli dell’Asia più lontana, così ricca di civiltà millenarie e che ancora non hanno ricevuto il vangelo, si pensa all’Israele eterno della grande tradizione biblica, all’islam ed anche al duro conflitto che si svolge nella terra del Signore. Si pensa alle Chiese del sud del nostro paese, alla ricchezza delle loro tradizioni, all’umiliazione presente. Si vuole che la comunità tutto assuma nella preghiera, ci si prepara, e intanto si muove qualche piccolo passo[12].
Il Concilio
Si apre intanto la grande stagione del Concilio alla quale don Giuseppe è chiamato a partecipare dal cardinale G. Lercaro quale suo perito, e al quale di fatto egli partecipa dall’ottobre 1962 alla ime del 1965 con tutta la sua preparazione e con le più ardenti speranze, coinvolgendo nella preghiera e – per alcuni – anche nel lavoro tutta la comunità. Il suo impegno per il Concilio sarà totalmente assorbente e ininterrotto, anche nei periodi di intersessione. Anzi, per un certo tempo, sarà anche segretario dei quattro cardinali moderatori del Concilio: Lercaro, Döpfner, Suenens e Agagianian.
Impossibile riassumere che cosa è stato il Concilio per don Giuseppe e, quindi, per la comunità: una splendida primavera ricca di promesse per la Chiesa e per tutti gli uomini. La Chiesa si presentava al mondo nella sua realtà misterica più profonda, anziché nella sua struttura giuridica, ovviamente non negata, come «lumen Christi… segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano… che avrà il suo compimento nella gloria del cielo, quando verrà il tempo della restaurazione di tutte le cose, e col genere umano, tutto il mondo, che gli è intimamente congiunto e che per mezzo di lui arriva al suo fine, sarà perfettamente restaurato in Cristo» (costituzione dogmatica sulla Chiesa). «Il sacrosanto concilio in religioso ascolto della parola di Dio e proclamandola fedelmente…
insieme alla sacra tradizione ripropone le Sacre Scritture come la regola suprema della fede… Infatti, la Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai di nutrirsi, specialmente nella sacra liturgia, del pane della vita dalla mensa sia della parola di Dio che del Corpo di Cristo» (costituzione dogmatica sulla divina rivelazione)[13]. «La sacra liturgia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa (annunzio, conversione, vita conforme, sacramenti, vita di carità, ecc.)… e tuttavia essa è il culmine cui tende ogni sua azione ed anche la sorgente di tutta la sua energia» (costituzione sulla sacra liturgia).
Impossibile esprimere la risonanza profonda e piena di gioia che queste proclamazioni solenni del sacrosanto Concilio ebbero nel cuore di don Giuseppe e della sua piccola famiglia: era qualcosa di sommamente desiderato e atteso da molti anni, come si può vedere dai principi contenuti nella Piccola Regola (1955) e in molte altre espressioni del suo pensiero.
Fin da allora tuttavia non mancarono le analisi lucide delle incompiutezze o difetti dell’uno o dell’altro documento conciliare. In particolare ritenne insoddisfacente la costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, forse un po’ troppo ingenuamente ottimista nel suo sguardo sul mondo moderno e incapace di giudicare «con la spada della parola di Dio» (Eb 4, 12) soprattutto i problemi posti alla coscienza cristiana elementare dalla povertà e dalla guerra. Pochi anni dopo la fine del Concilio diceva: «Certi nodi gordiani non possono essere tagliati altro che con la spada della parola di Dio, chiara e semplice, al di là di ogni riflessione teologica. Proprio a proposito della pace era necessario abbandonare il piano della teologia e delle istituzioni e venire alle cose elementari, intuibili semplicemente alla luce dell’evangelo e nella forza dello Spirito Santo, che è dato al cuore dei fedeli in virtù del battesimo e della cresima. Invece qui è mancato il contenuto più rilevante, che avrebbe dato concretezza all’interno e all’esterno della Chiesa», cioè la condanna elementare della guerra[14].
Nei decenni successivi crebbe, ovviamente, la sofferenza per la mancata o insufficiente ricezione del grande magistero conciliare, constatabile un po’ dovunque. Non venne mai meno però la speranza teologale, cristiana[15].
Finito il Concilio, don Giuseppe si dedicò intensamente all’applicazione del medesimo, sia nella vita interna della comunità (riforma liturgica, servizio della Parola[16], studio dei documenti conciliari), sia in diocesi, quale provicario episcopale del cardinale G. Lercaro per un anno.
La Terra Santa
Finalmente nel giugno 1972 don Giuseppe si trasferisce a Gerico in Terra Santa con un primo nucleo di fratelli, mentre la parte femminile della comunità si colloca a Gerusalemme. Ormai, fino alla morte, don Giuseppe dimorerà prevalentemente in Terra Santa, in mezzo ai suoi figli spirituali, al di qua e al di là del Giordano[17], tranne soggiorni nei nuclei italiani, dapprima più brevi, poi sempre più prolungati a motivo della salute che sempre peggiorava.
L’India e i grandi popoli dell’Asia
Da non dimenticare che proprio negli anni ’80 don Giuseppe, che già l’aveva visitata nel’68, effettuava vari soggiorni in India, ancora una volta accanto ai suoi fratelli o sorelle.
Piccole presenze oranti in seno alle Chiese separate, o in mezzo a popoli non cristiani, non per fare, ma per pregare e auspicare ardentemente, umilmente, l’unione delle Chiese e l’annuncio del vangelo, vivendo da poveri e stranieri, in stato di xenitia, come dicevano gli antichi monaci.
Tensione verso l’oriente cristiano e l’immenso mondo dell’Asia non evangelizzata, tensione per una solitudine assoluta per Dio solo sono presenti da sempre nel cuore di don Giuseppe. L’una e l’altra si ritrovano in una formulazione alquanto originale, del voto di castità nella Piccola, Regola del ’55: «Il voto e la virtù della castità ci portano… ad accogliere con gioia e gratitudine un’obbedienza per terre lontane e genti straniere alla nostra cultura e mentalità e a sperare di essere scelti per la solitudine totale dello spirito, come pegno benedetto di una fecondità sovrannaturale nei confronti di molte anime».
Ritorno in pubblico
Questo quadro, indubbiamente molto ricco, ma anche sostanzialmente uniforme, del quale più avanti dovrò spiegare il senso, almeno per qualche accenno[18] subisce una nuova svolta. Dopo circa 30 anni di silenzio don Giuseppe torna a parlare in pubblico. Il primo discorso pubblico è quello pronunziato la sera del 22 febbraio 1986, quando il comune di Bologna volle onorarlo con il conferimento dell’Archiginnasio d’oro. Seguì poi un lungo travaglio interiore, determinato dalla crisi o dalle crisi della nostra società italiana. Doveva o non doveva intervenire? Infine decise di intervenire pubblicamente e con tutta l’autorevolezza della sua storia personale. Questi interventi più recenti sono noti, sono stati pubblicati[19], non intendo soffermarmici.
Un povero che serve con tutte le sue forze
Invece vorrei rilevare due chiavi di lettura della sua biografia fornite da lui stesso nel discorso all’Archiginnasio. Dice don Giuseppe: «In totale mi sembra, nelle molte tappe e nelle varie sedi, di essere stato un prestanome, che ha se mai solo rappresentato aspirazioni, intuizioni, sforzi, volontà di moltissimi, uomini e donne, grandi e umili, dotti e indotti, illustri e anonimi sempre».
Un prestanome. Si, è vero. L’unità di una vita tanto ricca, di una personalità tanto complessa, mi pare che stia in una scelta radicale; mai smentita, di espropriarsi di sé e darsi a Dio e dunque all’amore degli uomini in Dio, senza trattenere per sé nessun possesso, né materiale, né spirituale. Cioè don Giuseppe è stato un vero povero. Non ha mai perseguito un interesse personale, sia pure ideale, ma si è risolutamente determinato ad usare tutte le risorse della sua intelligenza eccezionale, della sua capacità di rapida penetrazione dei fenomeni e dei loro sviluppi, dei bisogni e dei dolori della Chiesa e delle Chiese, della gente, del nostro paese e dei popoli, per offrire un rimedio in spirito di servizio e di compassione, in spirito di obbedienza. Così, per dare un esempio di questo `spossesso’, è utile ricordare che molte delle pagine più belle scritte da don Giuseppe, anche interi libri, sono state pubblicate a nome di altri. Fin da quando, a 23 anni, scrisse per padre Gemelli una memoria sugli istituti secolari, che più tardi fu adottata e ripresa, quasi parola per parola, nel testo di Pio XII che dava a questi istituti un ordinamento giuridico[20].
In secondo luogo, nel medesimo discorso, don Giuseppe esclude risolutamente che la sua biografia si possa interpretare come una serie di «esperienze spirituali». Dice don Giuseppe: «Escludo ogni pretesa di presentare la via da me seguita – soprattutto quella che seguo da 30 anni (cioè la vita monastica) – come l’unica forma di servizio divino e di interpretazione del cristianesimo. Anzi, mi piace proporla come una delle tante possibili». Esclude anche però molto risolutamente di concepire la vita come una raccolta di esperienze, esperienze personali o sociali, o anche esperienze spirituali. C’è sempre il grande rischio di fare del dilettantismo, del turismo spirituale, di restare sempre in una specie di celibato timido ed egoista, comunque sterile. A un certo punto bisogna scegliere con una decisione forte e definitiva… con tutte le proprie forze. E, infatti, abbiamo visto don Giuseppe applicarsi con tutte le sue forze, con tutta l’energia dello spirito, un’energia che pareva moltiplicarsi in misura inversa all’inevitabile e sempre più grave decadimento fisico, a tutti i suoi doveri fino all’ultimo giorno della sua esistenza terrena: padre della sua comunità, sacerdote, maestro, confessore e consigliere di moltissimi, pensatore nei molti ambiti delle sue riflessioni e delle sue relazioni. Un nostro giovane fratello, passato dalla laurea in ingegneria elettronica agli studi di filosofia e teologia, ci diceva di avere ricevuto dal padre indicazioni preziose per i suoi studi proprio pochi giorni prima della sua morte.
Del resto fin dal lontano 1955 aveva scritto nella sua Piccola Regola: «Il lavoro è obbedienza, prolungamento dell’eucaristia e della liturgia delle ore, oggetto normale della nostra offerta: quindi preordinato, custodito e compiuto con zelo religioso, strumento regolare della nostra mortificazione, del nostro amore per le anime e del nostro annuncio abituale». In un documento ancora precedente e sempre dedicato alla comunità, scriveva, nella Pentecoste del 1954: «Il nostro lavoro non è una parte della nostra vita comunitaria, vuole essere assunzione totale di una sorte, quella dei minimi della terra che sono divorati dal lavoro… Sarebbe irreale se non mettessimo al loro servizio tutti i talenti che il Signore ci ha dato. Non possiamo derubarli della nostra preghiera, del nostro silenzio, della continua offerta del nostro lavoro sacrificale e nemmeno della luce di intelligenza che il Signore ha messo in noi per loro, della nostra esperienza e conoscenza del mondo e della storia che il Signore ci ha dato per loro».
Queste risoluzioni fedelmente perseguite ci dicono molto anche in ordine ai suoi ultimi interventi pubblici. Del resto nei primissimi anni della nostra vita di comunità si leggevano e meditavano quelle teorizzazioni antiche della vita monastica, che supponevano vari stadi: il cenobio e l’apprendimento, l’eremo e la consacrazione totale a Dio solo, il ritorno in età matura a un magistero spirituale pubblico e fecondo e infine, se necessario, anche l’intervento nelle cose pubbliche[21]. In realtà questo schema di vita è stato vissuto prima che teorizzato da molti giganti della santità. Anche don Giuseppe ha finito, in qualche modo, per conformarvisi, certamente senza averlo programmato, ma sollecitato dal bisogno degli altri e dunque dalla carità e dall’obbedienza[22].
Parola ed eucaristia
Ma dove attingeva la sua energia? Quale era il polo unificante la sua personalità e i suoi molteplici e disparati ‘servizi’? Certamente dalla parola di Dio e dall’eucaristia, come l’abbiamo visto vivere e insegnare incessantemente, nella salute e nella malattia, dagli inizi alla fine, anzi, meglio, dalla Parola nell’eucaristia. Dalla Parola e dall’eucaristia l’energia per abbracciare nella preghiera vigilante e amante tutto il mondo e tutta la storia. Ha scritto nella Piccola Regola: «L’eucaristia del Cristo è tutto: tutta la creazione, tutto l’uomo, tutta la storia, tutta la grazia e la redenzione: tutto Dio, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo: per Gesù, Dio e uomo, nell’atto, operante in noi, della sua morte di croce, della sua risurrezione ed ascensione alla destra del Padre e del suo glorioso ritorno. La vita che non abbiamo scelto noi, ma per la quale da misericordia siamo stati scelti, non può essere che questo: ogni giorno, per tutto il giorno, lasciarci prevenire dallo Spirito Santo a contemplare e ad accogliere in noi il mistero della messa, che opera in ciascuno la morte della creatura e la risurrezione e glorificazione del Verbo Incarnato; mistero per il quale il Padre per Gesù, nello Spirito Santo, sempre crea, santifica, vivifica, benedice e concede a noi questo bene della comunione con lui e fra noi suoi figli».
In uno dei suoi ultimissimi discorsi – quando quasi non poteva più parlare – diceva ad un gruppo di sacerdoti di Foggia, il 21 giugno 1996: «Credo assolutamente che tutta la vita della Chiesa, oggi più che mai, domani più che oggi…, dipenda dal vangelo inquadrato e – naturalmente – vissuto nell’eucaristia… Preti e laici si immergano nel vangelo, leggerlo, leggerlo, leggerlo… Leggete il vangelo, forandovi le orecchie e sradicando i pensieri… sine glossa… sapendo di accogliere la parola di Dio come Gesù l’ha seminata quando andava per le strade della Galilea… È assurdo stancarsi del vangelo, è di una profondità infinita, inesausta, inesauribile. E continuamente ci sostiene, ci forma, ci plasma, ci crea prima di tutto come cristiani. Un tempo, fino a Gregorio Magno e anche dopo c’erano canoni che impedivano a uno di diventare sacerdote se non sapeva il salterio a memoria… E poi dovete studiare la storia, immergervisi profondamente, non la cronaca, ma la storia, e non solo quella della Chiesa, anche la storia della società civile, perché il mondo c’è ed è una componente essenziale dell’opera del Creatore e del Redentore»[23].
Ultima malattia e morte
Della morte diceva spesso: «La vita dell’uomo è incompiuta finché manca l’opera più importante, quella che dà senso e verità a tutto quello che è accaduto: quest’opera è la nostra morte, come la prepariamo e come la viviamo». E, fin dal ’63, in un ritiro predicato a suo nipote sacerdote, aggiungeva: «Se è vero che si muore ad ogni istante, perché ad ogni istante perdiamo esistenza, l’atto ultimo, la nostra morte, non può essere quello che deve essere, se non moriamo tutti i giorni pregando. Dobbiamo pregare sempre perché ad ogni istante moriamo e questo perdere esistenza dovrebbe avvenire in un atto di adorazione. Come non posso fermare il mio morire, così dovremmo pregare sempre perché le due cose, il pregare e il morire, si identifichino»[24].
In un’omelia del sabato santo 1981 a Gerusalemme diceva: « È lo Spirito che trasforma le nostre passioni carnali in passioni spirituali e dà la più alta, il desiderio di soffrire per amore: questa è la conversione, il rovesciamento della natura. Non che diventi facile secondo la carne, ma dà la gioia dello Spirito… Quando saremo veramente soli, abbandonati forse dalle facoltà che ci mettono in comunicazione con gli altri, ma nell’apice del nostro essere avremo ancora la capacità di comunicare con lo Spirito… forse per quei momenti è riservata la comprensione suprema dei misteri di Cristo… il Signore ci illuminerà e consolerà. In vista di quei momenti supremi invocare, e la nostra carne continuerà a invocarlo quando non lo potessero più le nostre facoltà, essa che avrà una vita spirituale e riposerà nella speranza»[25].
Gli ultimi 18 anni della sua vita sono stati segnati da continui e molto gravi assalti alla sua salute, ictus (il primo nel ’79), operazioni rischiosissime, fino all’ultima trombosi intestinale del 16 luglio ’95 alla quale sono seguiti ben 3 interventi chirurgici, lievi riprese e poi il collasso finale e l’incontro col Signore il 15 dicembre ’96, Dominica Gaudete. I fratelli che l’hanno assistito ci parlavano della sua serena allegria[26], della sua preghiera, della lucidità con la quale ancora consigliava, dirigeva, interveniva. A me piace ricordare due sue parole raccolte direttamente.
All’ospedale di Modena il 16 agosto 1995: «Dobbiamo invocare la Madonna come Madre di Dio, invochiamola continuamente… Cosa ha detto di sé la Madonna? Ecco la schiava del Signore! Cosa ha offerto Maria al Signore? Niente.
Era niente. Era virtuosa, certo, ma cos’è questo di fronte a Dio? al dono di Dio, all’incarnazione del Verbo? Niente. Noi siamo niente, Maria ha offerto a Dio il suo niente e lo Spirito Santo l’ha riempita. Noi siamo niente, niente, niente. Questo solo è veramente nostro, questo solo possiamo offrire in verità. Dobbiamo offrire a Dio continuamente il nostro niente. Allora, come su Maria, verrà su di noi lo Spirito Santo… Come dice il Signore: la carne non giova a nulla, è lo Spirito il Vivificante… Una cosa sola conta: invocare lo Spirito Santo… di qui la vera fraternità, la carità; l’umiltà, l’efficacia e la coerenza del nostro battesimo, la nostra reale conformazione a Cristo, l’essere figli di Dio…».
A Montesole nell’ultima parola detta dall’altare, il 6 agosto 1996: «attraverso il Corpo di Cristo la luce stessa di Dio si riflette su tutto il creato… sole, luna, stelle… sulle creature immateriali… Le creature angeliche, attraverso il Cristo, nella sua natura corporea glorificata, raggiungono in modo nuovo la gloria della divinità del Cristo stesso… Tanti testi liturgici della festa, sia latini che greci, ce lo dicono, ma la nostra liturgia romana insiste particolarmente sulla convocazione dei figli di Dio… Lo splendore della luce di Cristo trasfigurato appare nella povertà della nostra carne, la sua e la nostra.. I discepoli vedono la luce sfolgorante in quanto possono, in quanto è possibile alla creatura… luce infinita, luce escatologica… certo, ma la liturgia, sia quella greca che quella romana, ci invita a desiderare la luce taborica, a chiederla, anche, in qualche misura, per il presente… se lo vogliamo, se lo desideriamo, se il nostro cuore comincia ad ardere nel desiderio e si affina sempre più nella preghiera… Rinunziare a priori è da stolti, non accettare quelle che sono le condizioni è da avari… Bisogna impegnarsi seriamente… col desiderio di assecondare il desiderio del Signore, che ci sospinge, come dice sant’Ignazio: vieni al Padre! Non solo in Paradiso, ma già quaggiù. Vieni a immergerti nella luce inaccessibile. Ci vuole il desiderio umile, fiducioso, semplicissimo, non ambizioso, non contorto… e per questo bisogna lasciarsi purificare… Un bellissimo tropario della liturgia bizantina dice che il Signore si è trasfigurato davanti ai discepoli per incoraggiarli a partecipare consapevolmente alla sua passione, perché potessero adorare nella pace i suoi patimenti… È stupendo, no? Nel riposo, non nella commozione, non nell’agitazione… adorare nella pace la sofferenza reale sua e nostra»[27].
Ecco, la pace e un pregustamento della luce taborica ci sembra abbiano accompagnato gli ultimi travagli del suo povero corpo prima dell’ultimo respiro.
[1] Mi riferisco alle notizie contenute nel volume pubblicato a cura del comune di Bologna in occasione del conferimento dell’Archiginnasio d’oro a Giuseppe Dossetti il 22 febbraio 1986.
[2] Vedi quanto ne dice lui stesso il 22.2.1986 all’Archiginnasio di Bologna.
[3] Da G. Lazzati, in Archiginnasio, cit.
[4] Più volte ci diceva «Ci sono entrato mio malgrado, ve l’assicuro». Vedi G. Dossetti, Conversazioni, In Dialogo, Milano 1994.
[5] Vedi ancora G. Lazzati, in Archiginnasio, cit. Nel conferire a don Giuseppe l’Archiginnasio d’oro il sindaco Imbeni sottolineava il contributo eccezionale dato da don Giuseppe alla causa della povertà e della pace; due nodi cruciali della condizione umana dei nostri tempi: «A partire da una condivisione personale della situazione degli strati più umili, Dossetti si è via via interrogato sul significato teologico, spirituale e, non meno, storico della condizione di povertà della maggior parte dell’umanità contemporanea. Ponendosi così nella prospettiva di orizzonti planetari, la coscienza cristiana di Dossetti ha gridato il rifiuto dell’ingiustizia e, nel medesimo tempo, il valore della povertà, non certo come rassegnazione all’indigenza e all’emarginazione sociale, ma come ricerca di un rapporto nuovo dell’uomo con i beni, al di là della facile e dilagante droga del consumismo. E infine la testimonianza per la pace e l’analisi acuta e inesorabile delle cause che fanno della nostra società, proprio nei suoi centri vitali, una società di violenza, oppressiva e inumana, quanto remota dall’evangelo. Un’istanza di pace non ingenua, a basso prezzo, radicata nella partecipazione alla resistenza, collaudata nel rifiuto dell’adesione al Patto Atlantico. Un’istanza vissuta con profonda tensione interiore, con consapevolezza storica, priva di indulgenze e particolarmente severa con il mondo ‘cristiano’» (in Archiginnasio, cit.).
[6] Testo scritto per la comunità e da essa custodito.
[7] Dal discorso sul Discepolato pronunziato da don Giuseppe al Centro in occasione dei 40 anni dagli inizi.
[8] Cito da Discepolato, cit.
[9] Si è sempre parlato di famiglia più che di comunità, secondo l’ispirazione benedettina: «La regola di san Benedetto ci dà il senso della comunità come famiglia sovrannaturale, che nasce e si rigenera ogni giorno nella divina liturgia, e dell’obbedienza filiale» (dalla Piccola Regola).
[10] II giorno dei funerali, 18.12.1996, il comune di Bologna decretò il lutto cittadino e all’uscita della bara dalla basilica di san Petronio, dopo la celebrazione eucaristica presieduta dal card. G. Biffi, concelebranti il card. A. Silvestrini e il vicario patriarcale di Gerusalemme, fu fatto suonare il campanone di palazzo d’Accursio.
[11] Non dobbiamo occuparci della cronaca, ci diceva, ma della storia sì, con tutta la vigilanza della preghiera e del cuore e, cioè, dei grandi drammi dell’umanità del nostro tempo: l’ingiustizia, la fame, l’oppressione, il buio della fede, la fatica della ricerca di verità è di luce, il dramma delle Chiese divise, dei popoli che non hanno ancora ricevuto l’annuncio del vangelo.
[12] Viaggi e lunghe permanenze di don Giuseppe e di qualche fratello e sorella in Terra Santa e in Grecia.
[13] Già in una lettera pastorale del 1956 il futuro papa Roncalli scriveva: «Nel libro la voce di Cristo sempre risuonante ai nostri cuori, nel calice il sangue di Cristo presente a grazia, a propiziazione, a salute nostra, della santa Chiesa e del mondo intero. Le due realtà vanno insieme: la parola di Gesù e il sangue di Gesù. Fra l’una e l’altro seguono tutte le lettere dell’alfabeto: tutti gli affari della vita individuale, domestica, sociale, tutto ciò che è pure importante, ma secondario in ordine al destino eterno dei figli di Dio e che non vale se non in quanto è sostenuto dalle due lettere terminali: cioè la parola di Gesù sempre risonante in tutti i toni nella santa Chiesa dal libro sacro e il sangue di Gesù nel divino sacrificio, sorgente perenne di grazie e di benedizioni».
[14] Vedi GIUSEPPE DOSSETTI, Il Vaticano II. Frammenti di una riflessione, Il Mulino, Bologna 1996.
[15] Nel discorso pronunciato da don Giuseppe il 22/2/86 in occasione appunto del conferimento dell’Archiginnasio d’oro ebbe a dire: «Pongo le mie conclusioni sotto una comune chiave di lettura, che non è certo quella di un ottimismo alla Rousseau, né di un certo pessimismo preconcetto, e neppure di un confronto fra età…», ma sotto il segno, oso completare io, della virtù teologale della speranza, che si fonda unicamente sulla potenza dello Spirito Santo di Dio vivificante.
[16] Grande rilievo nella vita della comunità e dei moltissimi partecipanti (da Bologna, Modena, Parma, Reggio Emilia e altri) ebbero le liturgie della Parola del sabato sera, un impegno durato dalla fine del Concilio alla partenza di don Giuseppe per la Terra Santa, Il sabato pomeriggio si faceva una solenne celebrazione liturgica nella quale, venivano proclamate le letture della domenica seguente e ampiamente spiegate da don Giuseppe stesso, che si faceva coadiuvare anche da qualche fratello sacerdote, o diacono, più spesso da don Umberto Neri.
[17] Fin dal 1979 si era stabilita in Giordania una sorella eremita, seguita poi dall’impianto nella sede di Ma’in (Madaba), alla quale ci aveva destinati il patriarca di Gerusalemme, di due piccoli nuclei, uno maschile e uno femminile.
[18] È impossibile in un’esposizione sommaria fare di più. Don Giuseppe ha lasciato molti scritti e registrazioni che occorrerà riprendere col tempo e con un lavoro critico, per ora impossibile.
[19] Gli interventi pubblici più significativi di Giuseppe Dossetti sono raccolti nel volume: GIUSEPPE DOSSETTI, La parola e il silenzio. Discorsi e scritti 1986-1995, Il Mulino, Bologna 1997. Si possono consultare inoltre alcune pubblicazioni già citate: G. DOSSETTI, Conversazioni, In Dialogo, Milano 1994; G. DOSSETTI, Costituzione e Resistenza, Sapere 2000, Roma 1995.
[20] Le associazioni di laici consacrati a Dio nel mondo, memoria edita a firma di p. A. Gemelli, Milano 1939, pro manuscripto, utilizzata nei documenti pontifici Provida Mater e Primo feliciter.
[21] In verità la quarta tappa, eventuale, poteva essere il martirio, cioè la testimonianza suprema dell’amore. Nell’aggiunta alla Piccola Regola, relativa ai quattro santi scelti come patroni della Piccola Famiglia (Ignazio d’Antiochia, Benedetto, Francesco e Teresa di Gesù Bambino), don Giuseppe aveva scritto: «Le lettere di sant’Ignazio ci invitano a spendere la vita, fino al martirio, se ce ne fosse fatta grazia, per glorificare il Cristo che ha glorificato noi… ».
[22] In uno dei suoi primi interventi sulla costituzione, a Milano il 20 gennaio 1995, diceva «Mi sono forzato a parlare, nonostante il mio stato monastico e la mia età, incoraggiato dall’esempio di san Saba (VI secolo), l’archimandrita degli anacoreti del deserto di Giuda, che, non solo trovò necessario ed opportuno sottoscrivere suppliche per il bene pubblico rivolte all’imperatore Anastasio, ma che per ben due volte lasciò le profondità del deserto palestinese in cui viveva per andare alla corte di Bisanzio e parlare con l’imperatore, la prima volta con Anastasio la seconda con Giustiniano. Con Anastasio volle patrocinare la pace a favore delle Chiese di Dio della Palestina. Con Giustiniano trattò per implorare clemenza dopo la rivolta dei samaritani, perché fossero ricostruite le chiese e i luoghi distrutti e fossero alleviate le imposte straordinarie che gravavano sulla santa Anastasis. Particolare non insignificante: Saba rifiutò sempre per sé e per il suo monastero qualunque favore o donazione imperiale».
[23] Cito dalla registrazione delle sue parole.
[24] Cito dall’omelia pronunziata dal nipote sacerdote, presente la salma, il 16 dicembre 1996.
[25] Cito dalla registrazione dell’omelia.
[26] Quella serena allegria che l’ha accompagnato in tutta la vita e che si proponeva di dare a tutti coloro che gli erano vicini, per temperamento e per delicata attenzione di carità.
[27] Cito dalla registrazione delle sue parole.