Il peso di Dossetti sull’orientamento e la prassi del PCI
Relazione di Guido Fanti
La mia non può essere una lezione, ma la testimonianza di chi ha avuto la ventura di vivere negli ani del periodo bolognese di Giuseppe Dossetti e cioè del suo più diretto impatto con il PCI dopo gli anni della Costituente. Sono gli anni 1956-1958 in cui fu a Palazzo d’Accursio come consigliere comunale e poi dal 1964 al 1968 negli anni del post Concilio come segretario ed ausiliare del cardinale Lercaro. L’inizio fu duro, gli anni ‘50 furono contrassegnati, anche a Bologna come in tutta Italia, da forti tensioni. Lo scontro politico venne inasprito con l’arrivo del cardinale Lercaro nel 1952 ed il suo diretto intervento nella vita della città. Sono gli anni dei frati volanti, basta scorrere le cronache dei giornali dell’epoca per vedere come la tensione fosse esasperata, con minacce di querele gli uni contro gli altri., fino a che non si arrivò alla preparazione delle elezioni amministrative del 1956, quando, e uso le parole di Dossetti “Un sussulto inaspettato dell’efficientismo volontaristico del cardinale Lercaro, lancia l’idea di conquistare al partito della democrazia cristiana la maggioranza civica”. Ricorda Dossetti “fu messo in guardia, con leale fermezza, anche da chi avrebbe dovuto essere il protagonista del tentativo. Egli rispose di doverci pensare ancora, ma poi improvvisamente, senza consultare più nessuno, il 17 ottobre del ‘55, decideva di rendere pubblica la sua decisione. Il principale interessato ubbidì, andando incontro consapevolmente all’esito delle elezioni” Fu una sorpresa generale, anche all’interno della democrazia cristiana ci fu una sorta di opposizione, come pure malumori diffusi vennero da parte de “la triplice”, come allora si chiamava il patto di collegamento della associazione industriali, dei commercianti, degli agrari, punti di riferimento delle campagne anticomuniste in tutte le elezioni. Ma ci fu sorpresa anche da parte nostra, quando passati i momenti iniziali, fummo colpiti dal mutamento improvviso che avvenne con la prevalenza dei confronti programmatici e l’abbandono degli slogan anticomunisti e dei riferimenti alla politica nazionale e internazionale. Invece ci si opponeva un esame attento della condizione della città, delle sue esigenze e delle sue prospettive, raccolte in quel famoso Libro Bianco, redatto in particolare da Ardigò, che cercava di contestare un presunto conservatorismo rosso dell’amministrazione Dozza, pur riconoscendone l’attività svolta per la ricostruzione dopo la guerra, ma in mancanza di prospettive innovative per il futuro della città.
Tutto questo avveniva nel momento in cui nelle file comuniste, dopo il ventesimo congresso del PCUS e la denuncia dei crimini di Stalin, era iniziato quel percorso di riesame critico, specie da parte di una nuova generazione di giovani, che dettero inizio, all’interno del partito, alla fase di rinnovamento ideale, politico ed organizzativo in nome della via italiana al socialismo, e che raggiunse il suo punto più alto in ottobre-novembre, a seguito della rivoluzione ungherese e delle sue conseguenze.
In questo senso, anche sullo stimolo delle critiche di Dossetti, emerse l’esigenza di una verifica anche della politica amministrativa come banco di prova della capacità di governare attraverso una politica innovativa e non conservatrice.
L’unico scontro politico durante la campagna elettorale avvenne nel comizio tenuto da Togliatti in maggio alla vigilia del voto con un duro attacco rivolto a Dossetti per aver tradito le posizioni assunte nella DC. Altrettanto violenta fu la replica di Dossetti: “non può parlare di tradimento chi porta il suo partito alla totale dipendenza dalla politica estera dell’URSS” e riconfermò l’impegno assunto nei confronti della città: “cercheremo secondo le nostre modeste forze e le nostre possibilità di offrire un termine di confronto al partito comunista, almeno al partito comunista bolognese. Se noi, come è probabile, non potremo comporre dopo il 27 maggio una maggioranza, ebbene noi almeno credo riusciremo a dimostrare dai banchi della minoranza quello che si fa per servire una città e portarla avanti in uno sviluppo generoso” (dal comizio in P.za Maggiore 20-5-56).
Venne poi il risultato elettorale con la vittoria di Dozza e la nota imprecazione contro i bolognesi “corsi a sbattezzarsi”. Per Dossetti iniziano gli anni del Consiglio cui partecipò senza alcuna assenza fino al 1958. Sono gli anni che preparano le grandi scelte di ciò che sarà la Bologna di oggi, a cominciare dalla creazione dei consigli di quartiere.
Già l’amministrazione Dozza aveva cercato di avviare una possibilità di dialogo con i cittadini attraverso le consulte tributarie con gli aggiunti del sindaco in base ad una vecchia legge comunale-provinciale. Ma sono i consigli di quartiere, realizzati nel ‘62, il fatto nazionale di grande importanza e di grande rilievo, perché era il primo esempio in Italia di un tentativo di aprire un discorso di partecipazione. Per usare le parole di Ardigò, che fu uno dei protagonisti di quell’epoca: “La cosiddetta stanza dei bottoni deve essere allargata a tutto il paese, per rendere tutto il popolo uniforme e nei modi adeguati corresponsabile direttamente della direzione della cosa pubblica”.
In questo senso ci muovemmo allora nel dare potere ai consigli di quartiere, poteri che poi successivamente vennero limitati e circoscritti dalla legge nazionale, che, sulla base dell’esperienza di Bologna, portò le città italiane ad avere le elezioni dei consigli di quartiere ma nello stesso tempo portò a limitare i loro poteri effettivi, specie in materia urbanistica, per trasformarli sempre di più in organi suppletivi della politica amministrativa. E questo fu uno dei primi grandi risultati che si ottenne allora. Da parte nostra, noi portammo avanti in quegli anni un riesame della politica amministrativa in risposta al Libro Bianco. E la giunta portò ad elaborazione e discussione in consiglio comunale, nell’aprile del 1963, il piano poliennale che conteneva il progetto futuro di Bologna, quel progetto che poi si è visto realizzato via via negli anni e che ha portato alla costruzione della città come la viviamo oggi.
L’insegnamento e l’orientamento di Dossetti valse a far si che il gruppo consigliare della D.C., pur mantenendo le proprie posizioni politiche dal punto di vista generale, ugualmente lavorava, in senso positivo e propositivo, all’attuazione via via dei vari provvedimenti che andavamo indicando nel corso degli anni. Bisogna ricordare che erano gli anni dell’attuazione del primo centro-sinistra, erano gli anni dell’unificazione socialista, erano gli anni in cui era difficile riuscire a mantenere e a conservare quella politica di unità che rappresentava la base d’impostazione con la quale avevamo iniziato il lavoro in consiglio comunale. Eppure proprio tramite l’attività del gruppo di consiglieri che Dossetti aveva portato con sé, parlo ad esempio di Felicori, Tesini, della Sbaiz, Marabini, di Ardigò, noi riuscimmo a mantenere, nell’ambito dei lavori del consiglio, una collaborazione fattiva anche con gli stessi che mantennero l’apporto alla maggioranza che reggeva il comune insieme agli stessi socialdemocratici. Però si avvertiva sempre di più sul piano generale la mancanza di un punto di sintesi più alto, di un punto liberante dai tanti condizionamenti che sempre più marcati, dalle vicende nazionali, tendevano ad influire ed influenzare la realtà politica bolognese, sia sul versante D.C. – partito socialista, sia sul versante del P.C.I., in cui si apri una discussione forte su quale doveva essere l’atteggiamento nei confronti del governo.
^^^^ Il partito comunista a Bologna prese delle posizioni, dopo la battaglia che si era conclusa con il rinnovamento complessivo dei quadri regionali del partito. Negli anni ‘62-’63, di fronte anche all’acuirsi della crisi nei confronti della politica dell’Unione Sovietica, fu il partito comunista a Bologna che lanciò l’idea, la necessità che in vista del prossimo congresso, il partito doveva prendere una netta posizione di distacco dalla politica estera dell’Unione Sovietica. E insieme a questa misura di carattere generale, nazionale si accompagnava anche la necessità di modificare il centralismo democratico e di rifare una riforma organizzativa del partito comunista rispondente di più a criteri di democrazia nella base. Erano quindi anni di scontro politico e, come capite, queste posizioni assunte dalla federazione di Bologna valsero al suo segretario la denuncia ai probiviri del partito con accuse di frazionismo e cose del genere, perché era una cosa che andava fuori dalle regole e fu necessario un congresso nazionale, in cui le tesi che noi avevamo affrontato vennero discusse e naturalmente respinte e quindi fu chiusa una certa partita che condizionava e tendeva a condizionare la realtà bolognese. Insomma mancava qualche cosa capace di dare una motivazione più alta alla realtà nella quale lavoravamo e che costruivamo insieme. Una motivazione più alta tale da sottrarre la dialettica quotidiana al logorio fra il fare, l’operatività comune dei piani di sviluppo della città e il richiamo alle divisioni e scontri della politica nazionale. Era un pericolo che avvertivamo, questo dell’incombere della politica nazionale e non sapevamo come reagire; l’occasione ci fu data con l’apertura del Concilio Vaticano II, dal e dai suoi lavori, dalla partecipazione diretta di Lercaro e con lui di Dossetti ai suoi lavori, in una forma tale da portare il sindaco Dozza e la sua giunta a sentir il bisogno di recarsi in stazione per porgere e ricevere nel ‘65, il cardinale al suo ritorno dal concilio, il saluto della città, per aver saputo portare in quei lavori, non solo il suo pensiero di padre della chiesa e di vescovo, ma anche la voce degli uomini che per la libertà e la pace hanno lottato e sofferto. Non poteva certo rimanere isolato ad una forma di cortesia questo saluto (un saluto fine a se stesso?), e infatti fu quello il giorno che invece apri una nuova epoca nella vita di Bologna: valse a buttar via di colpo le incomprensioni c le contrapposizioni che avevano pesato negativamente negli anni passati e resi difficili tutti i passi compiuti per avviare su nuovi binari la vita della comunità cittadina.
Un periodo molto limitato nel tempo, poco più di due anni, e che si chiuse con la lettera di commiato rivolta da Lercaro, nel febbraio del ‘68, alla comunità della diocesi a seguito della sua rimozione. La prima occasione fu offerta con l’elezione del nuovo sindaco nell’aprile del ‘66 e con lo scambio di lettere con il cardinale; i testi erano stati predisposti con una procedura molto riservata, che poi fu mantenuta, direttamente fra Dossetti e il sindaco, e cosi Dossetti riprendeva di fatto a dare da quel momento il suo apporto personale a fatti, eventi, elaborazioni destinati a determinare eventi importanti per la vita di Bologna e delle sue istituzioni, fino al momento del suo allontanamento con la rimozione del cardinale Lercaro. Ricordo gli episodi centrali: lo scambio di lettere per aprire il dialogo, in secondo luogo i discorsi in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria al cardinale, in terzo luogo la preparazione e lo svolgimento della giornata della pace il 1° gennaio ‘68, con i discorsi del sindaco e del cardinale il 22 dicembre, e la omelia pronunciata da Lercaro il I° gennaio; questa vicenda è trattata in modo molto accurato e documentato da Battelli nel suo saggio “Lercaro, Dossetti, la pace e il Vietnam”. Vale la pena di ricordare alcuni passi della lettera di saluto in cui, come sindaco appena eletto, mi richiamavo al saluto precedente di Dozza, “traggo motivo a formulare la fiducia che, nella nuova apertura della chiesa ai problemi del nostro tempo, potrà dispiegarsi un apporto spirituale e civile sempre più ampio dei cattolici alla soluzione dei problemi della comunità bolognese, cui noi intendiamo dedicare tutte le nostre energie ed il più incondizionato impegno”. La risposta fu immediata: “Il vescovo, nel ricambiare il saluto del nuovo capo della civica amministrazione, sente di fare un atto di consapevolezza e di responsabilità religiosa e umana di fronte alla vicenda storica del nostro tempo…. La solidarietà della chiesa all’opera di edificazione e progresso civile, vuole essere, sempre di più dopo il concilio, una solidarietà spirituale, religiosa, senza ambizioni e senza confusioni, sempre più pura e disinteressata, sempre più libera e liberante…. Guidata da questa ispirazione, la chiesa bolognese non troverà difficile nutrire grande rispetto e comprensione spassionata e nell’ordine che le è proprio un impegno sincero di concreta operosità costruttiva per uno sviluppo più umano, per una società più giusta, per un costume più nobile ed elevato, per una pace che non sia solo esterno equilibrio di forze ma frutto di rinnovata armonia in segno di amore”. Ciò che poi indica con chiarezza il senso e i contenuti di questo nuovo rapporto viene espresso nei due discorsi che sindaco e cardinale pronunciano nel novembre in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria voluta appunto per dare consacrazione ufficiale e pubblica alla nuova epoca che si apre per Bologna. Anche questi discorsi sono preparati nel solito modo riservato di reciproco scambio dei testi. L’articolo che scrisse il giorno dopo Raniero La Valle (editoriale dell’Avvenire d’Italia), riesce a cogliere e sintetizzare la novità di quello che era successo: “Ambedue gli interlocutori, il sindaco e il vescovo, hanno portato qualcosa di nuovo e l’una cosa è condizione dell’altra. Il primo, il politico, non ha certo fatto rinuncia del suo mondo ideologico, delle sue solidarietà, delle sue tesi sociali e statuali su cui è acceso, oggi come ieri, il contrasto, talvolta fortissimo in Italia e nel mondo, fra i partiti e gli stati. Ma nel contesto di un discorso civile che voleva lasciarsi alla spalle le durezze ideologiche e pratiche del passato, il sindaco Fanti ha portato un primo risultato, ancor timido forse ma certamente liberante, a cui sembra giunto il ripensamento in atto ormai da qualche anno fra i suoi compagni di fede: non essere cioè la religione, come asseriva il vecchio assioma marxista, una sovrastruttura che l’estensione delle conoscenze e il mutamento delle condizioni sociali sono destinati a spazzare via. E il ripensamento si ferma a questo punto, ma se esso è coerente, non può non volere dire riconoscere la religione come una dimensione autonoma e irriducibile dell’uomo che non si può dunque combattere senza combattere l’uomo. E il pastore, prendendo atto di questo riconoscimento d’autonomia e irriducibilità, non poteva per parte sua che esprimere la solidarietà della chiesa, con tutti quanti operano in servizio degli uomini, per il progresso della città terrena; nello stesso tempo riaprendo il suo discorso, il discorso di salvezza della chiesa, a cominciare proprio da quell’aula civica, con tutti battezzati, anzi con tutti i chiamati, oltre le distinzioni di partito; distinzioni, certo non negate e per nulla superate nel loro ordine proprio che è quello della costruzione civile; ma non determinanti, non maggiorabili, non preclusive nell’ordine della fede del Vangelo, come per ultimo ha ribadito il Concilio ammettendo la legittima molteplicità e diversità delle opzioni temporali.” Ma su queste lettere ci sarebbe ancora molto da dire, perché negli anni successivi lo stesso Dossetti riprese il discorso dicendo che “ gli sviluppi di quei discorsi non sono stati ancora adeguatamente studiati”, lui parlava a dieci anni dalla morte di Lercaro,” e che quando effettivamente lo si farà, si vedrà come certe cose cambiassero con effetti certo non effimeri”. Voglio aggiungere anche una lettera di La Pira, che mi scrisse il giorno successivo: “Ho parlato a lungo con Dossetti: era molto contento e molto deciso: egli vede il piano provvidenziale: la sua stessa storia personale (piena di un tessuto misterioso di esperienza politica e di esperienza mistica) ha, in un certo senso, come porto l’operazione Bologna. Quindi la conclusione di questa operazione sarà una semente preziosa destinata a diventare spiga granita (il vangelo ci assiste:” una pianticella piccola piccola” ma destinata a diventare un albero pieno di robustezza e carico di speranza!) e a me diceva “stà fermo perciò su questa posizione ideale e su questa prospettiva storica ideale: l’incontro avvenuto non è una cosa marginale: è un fatto che avrà incalcolabili conseguenze nella vita politica!”.
Ho voluto ricordare questi avvenimenti, perché nel momento in cui Bologna li viveva, sul piano nazionale si originò una forte pressione politica, non solo nazionale come sappiamo dai documenti che la stessa C.I.A. ha reso pubblici per bloccare queste esperienze che Spadolini, allora direttore del “Resto del Carlino”, esorcizzava come il pericoloso avvio sul piano nazionale di una presunta “Repubblica conciliare”. Ma aldilà dei fattori politici contingenti, che cosa in realtà si è voluto colpire, che cosa si è voluto arrestare?; io ne sono convinto in realtà spaventava più di ogni altra cosa che dall’incontro operante e costruttivo di due istituzioni, il comune e la chiesa locale, svolto su valori e motivi finali, la pace ed il bene comune, nell’assoluto rispetto dell’autonomia e sovranità dei rispettivi ordini, potesse prendere corpo come in realtà andava prendendo corpo un mutamento grande della società politica e civile, nel senso che essa, pur continuando ad operare attraverso le sue forme e le sue regole, riusciva con minore difficoltà ad indicare e dare soluzioni a problemi importanti del vivere cittadino, tendeva cioè, in un clima di dialogo e collaborazione, a far prevalere nel rapporto umano e sociale ciò che poteva unire gli uomini da ciò che li divideva. E questo processo si è voluto colpire e lo si è fatto duramente, creando le condizioni per una normalizzazione graduale di Bologna, di ritorno e assorbimento nel clima politico nazionale. Da nessuna forza politica è venuto, in quegli anni, un segnale che non fosse di diffidenza se non di aperta ostilità, anche dalla parte comunista, nonostante che, pur direttamente attraverso il suo segretario Luigi Longo, avesse fin dal primo momento sostenuto ed incoraggiato l’azione che qui si svolgeva, tanto da concordare un incontro diretto con Dossetti che si svolse nell’autunno del ‘67, in modo molto amichevole. Questo colloquio, che durò qualche ora, portò Dossetti ad enunciare, in modo che a noi parve profetico, la fine dell’unità politica dei cattolici nella D.C., anticipando così quello che accadde trent’anni dopo.
Nel 1996 Dossetti ci è venuto a mancare. La scomparsa di Dossetti ha coinciso con la fine di tutti quei partiti del C.L.N., dal P.C.I. al P.S.I., dalla D.C. al P.L.I., che di Dossetti erano interlocutori; di quei partiti che erano riusciti a dare unitariamente all’Italia quella Costituzione che Dossetti fino all’ultimo difese nei suoi valori ideali e nei suoi contenuti.
Si è esaurito, si esaurì anche a Bologna, quel clima che tanto aveva concorso a rendere diversi i rapporti politici. Poco alla volta svaniva, questo clima, in un lontano ricordo. Solamente alcuni anni fa mi era parso che rinascesse nella città un clima di quel tipo, ed è stato quando nella campagna elettorale amministrativa del 2004, si è manifestata una spinta unitaria, non tanto e non solo dalle forze politiche, ma dalla società civile, cioè dalla partecipazione di gruppi di intellettuali, di organizzazioni e di associazioni che sentivano l’esigenza che a Bologna si tornassero a creare le condizioni per un nuovo progetto che riaprisse alla città una prospettiva cosi come si fece nei primi anni ‘60. Ora quell’entusiasmo si è rapidamente esaurito, perché quando si trattò di tradurre quella spinta, quegli orientamenti, quelle volontà espresse così tanto fortemente dagli ambienti cittadini, i più diversi, quando si trattò di tradurre quella spinta in azione operativa, è venuto a mancare l’apporto diretto delle diverse istituzioni che reggono la vita della comunità. C’è stato quasi un tornare indietro, un piombare in un’ordinaria amministrazione senza prospettive rispondenti a quelle che sono le necessità di oggi.
Il colpo d’ala, che anche grazie a Dossetti, ha dato fiato e vigore alla Bologna degli anni ‘60, non è ancora venuto ma ne abbiamo invece estremo bisogno.