Lavoro: Inventarsi il lavoro

Testi di G. Dossetti

1. –                   da: G. Alberigo, G. Dossetti. Prime prospettive e ipotesi di ricerca, Mulino 1998, pp. 56-58.

Nel 1952 Dossetti, lasciando l’attività politica, intraprende una iniziativa culturale del tutto nuova e inedita nei modi, nella composizione dei protagonisti, nella lungimiranza. L’impegno del gruppo di giovani studiosi coinvolti darà contributi essenziali al futuro Concilio Vaticano II, che papa Giovanni xxiii avrebbe convocato diversi anni dopo.

 Riprendendo dunque una convinzione già formata nel 1940, Dossetti, disimpegnatosi dalla Democrazia cristiana e poi dal parlamento, avvia, nell’autunno 1952 a Bologna – dove aveva appena iniziato il suo episcopato Giacomo Lercaro – un «Centro di documentazione». Una denominazione intenzionalmente anodina e in quegli anni del tutto inusuale, ma un progetto che aveva avuto una non breve incubazione, di cui però purtroppo ancora mancano informazioni.

Lo scopo era di prestare «qualche aiuto, però intenzionale, specializzato e permanente, per almeno alcuni dei settori più importanti della conoscenza riflessa sistematica che la Chiesa deve avere di sé e del flusso dei suoi rapporti con l’ordine civile». In tale ottica veniva impostato un intenso consorzio spirituale e culturale con un gruppo di giovani laici ed erano avviate ricerche sui luoghi teologici e sui grandi Concili. Si trattava di temi scelti con lungimiranza quasi incredibile, dato che essi sarebbero stati oggetto di grande e generalizzato interesse solo… qualche decennio più tardi.

Non è agevole ricostruire l’itinerario intellettuale lungo il quale Dossetti è giunto a disegnare un «Centro» così estraneo alla situazione ecclesiale e culturale italiana di quegli anni. Un’iniziativa che costituisce forse il suo momento più libero e più creativo al di fuori di modelli o esperienze esistenti. Tanto meno sappiamo come Dossetti sia pervenuto a identificare quei temi di ricerca, del tutto estranei all’universo degli studi teologici, ecclesiologici e canonistici di quegli anni.

L’impostazione del «Centro», nel quale Dossetti aveva coinvolto solo laici, prevedeva una formazione alla ricerca, uno stile di impegno culturale come lavoro comune, orientato anche alla creazione dal nulla di una Biblioteca specializzata, che colmasse la latitanza secolare delle biblioteche italiane verso le discipline relative al cristianesimo e alle religioni. Vi presiedeva la convinzione dell’intima connessione tra la ricerca scientifica e la creazione dei suoi strumenti, rifiutando l’abituale schizofrenia tra studiosi e responsabili delle biblioteche. Un’iniziativa tanto «anomala», inoltre, avrebbe potuto reggersi solo su finanziamenti «indipendenti», cioè estranei ai normali canali universitari.

Ci si potrebbe chiedere perché Dossetti, professore universitario, non abbia cercato di collocare la propria iniziativa in ambito universitario, eventualità per la quale avrebbe potuto contare anche su autorevoli simpatie. Anzitutto ha prevalso la convinzione che un progetto tanto nuovo avesse bisogno di uno statuto di completa libertà e di assenza di condizionamenti istituzionali e burocratici. Ma non si può sottovalutare neppure la convinzione che Dossetti aveva maturato, nella non breve esperienza universitaria a Milano e a Modena, a proposito della irreversibile egemonia nell’istituzione universitaria della preoccupazione per la diffusione della cultura, mentre la produzione di cultura – la ricerca, cioè conoscitivamente creativa – si andava collocando sempre più in realtà diverse.

Un’ulteriore dimensione caratterizzante del «Centro» riguardava la dimensione spirituale dell’impegno e il rapporto del gruppo con l’arcivescovo della città, Lercaro, al di fuori peraltro da legami istituzionali , sia con la chiesa che con lo Stato.

La consapevolezza di iniziare un sentiero del tutto nuovo e impervio, nelle condizioni ecclesiali e culturali generali e soprattutto italiane degli anni Cinquanta, era avvertita da Dossetti con tutta lucidità .

2. –                   da: Testimonianza su spiritualità e politica (1993) (in: Scritti politici, Marietti 1995, pp. LVIII-LIX; testo integrale in: Il Vangelo nella storia, Paoline 2012)

In questo frammento Dossetti espone la sua convinzione sull’esaurimento delle culture del ‘900 e sulla gravità del rimescolio in atto, che richiede uno sforzo nuovo di riflessione e comprensione profonda. Il testo si chiude con l’appello alla convocazione di menti e cuori giovani anziché uno sterile volgersi a soluzioni già pronte. In questo modo Dossetti spinge a sviluppare uno sforzo non solo in base alle nuove possibilità che concretamente si intuiscono ma ancor più in forza di una nuova comprensione del particolare momento storico che si vive.

 

[Dopo il 1989 e il crollo del muro di Berlino,] viviamo in una crisi epocale. Io credo che non siamo ancora al fondo, neppure alla metà di questa crisi. Sempre più ci sto pensando. Sono convinto che lo scenario culturale, intellettuale, politico non ha ancora esplicitato tutte le sue potenzialità. Noi dobbiamo considerarci sempre di più alla fine della terza guerra mondiale; una guerra che non è stata combattuta con spargimento di sangue nell’insieme, ma che pure c’è stata in questi decenni. Questa guerra è in qualche modo finita, con vinti e vincitori, o con coloro che si credono vinti ed altri che si credono vincitori. La pace, o un punto di equilibrio, non è stata ancora trovata in questo crollo complessivo. […]

Gli Stati Uniti cosa hanno vinto? Non si può dire che siano vincitori. È crollato il mondo avversario senza che l’Occidente se ne rendesse conto e senza che preparasse niente. Durante i due primi conflitti mondiali, nella fase finale delle operazioni militari, c’è stata una preparazione della pace, tanto nel 1917 che nel 1943-’44; oggi niente di simile: niente è stato preparato, tutti sono stati sorpresi, tutti sono stati sconvolti. La democrazia americana è finita; anche se ha vinto, non può proporre niente, e sino a oggi non ha proposto niente. Lo sconvolgimento è così radicale che noi non sappiamo quello che sarà domani, quello che sarà nel 1994, che sorprese avremo. C’è un rimescolamento completo di situazioni, siamo ritornati, in Europa, a prima del 1914. Il rimescolio dei popoli, delle culture, delle situazioni è molto più complesso di quello che non fosse nel 1918. È un rimescolio totale. In più c’è la grande incognita dell’Islam, una incognita in qualche modo imprevedibile.

Noi cerchiamo di rappresentarci questo sconvolgimento totale con dei modelli precedenti, quelli del 1918, quelli della pace di Versaglia, quelli del 1944-’45, quelli di Yalta, ma sono tutti non proporzionati, perché il rinnovamento è assai più radicale. Siamo dinnanzi all’esaurimento delle culture. Non vedo nascere un pensiero nuovo né da parte laica, né da parte cristiana. Siamo tutti immobili, fissi su un presente, che si cerca di rabberciare in qualche maniera, ma non con il senso della profondità dei mutamenti. Non è catastrofica questa visione, è realistica; non è pessimista, perché io so che le sorti di tutti sono nelle mani di Dio. La speranza non vien meno, la speranza che attraverso vie nuove e imprevedibili si faccia strada l’apertura a un mondo diverso, un pochino più vivibile, certamente non di potere. Questa speranza, globale in un certo senso, è speranza per tutto il mondo, perché la grazia di Dio c’è, perché Cristo c’è, e non la localizza in niente, tanto meno in noi. L’unico grido che vorrei fare sentire oggi è il grido di chi dice: aspettatevi delle sorprese ancora più grosse e più globali e dei rimescolii più totali, attrezzatevi per tale situazione. Convocate delle giovani menti che siano predisposte per questo e che abbiano, oltre che l’intelligenza, il cuore, cioè lo spirito cristiano. Non cercate nella nostra generazione una risposta, noi siamo veramente solo dei sopravvissuti.