Testi di Dossetti
1.A Lavoro come condivisione con gli ultimi, con il mondo che non può scegliere il tipo di lavoro.
1. – da: Appunto personale (1950) (in: La coscienza del fine, Ed. paoline 2010, p. 130)
In questo appunto spirituale Dossetti, che era un consacrato dell’Istituto secolare di Lazzati e nel pieno della sua attività politica, dà il quadro di riferimento del suo lavoro. Elenca perciò meticolosamente i modi per evitare il pericolo intrinseco della ricerca del prestigio e dell’interesse personale. È un ampio tratteggio della modalità cristiana di assumersi una responsabilità pubblica, finalizzata al bene degli umili, degli oppressi, dei disoccupati.
L’Attività Politica (14 settembre 1950, Esaltazione della Croce):
La croce deve essere piantata ed esaltata entro il complesso della mia attività politica. Non può essere diversamente: e per la natura (in senso proprio) di quei rapporti e di quelle azioni che già in sede soltanto naturale non possono essere ordinati se non con un’estrema energia morale, cioè con uno spirito eroico; e per la condizione della loro redenzione, che non può essere se non la mortificazione e la croce, a uno speciale grado di intensità, proporzionato all’estrema facilità della loro corruzione e all’estrema importanza e suprema sinteticità del loro contenuto.
Perciò quest’attività si sforzerà di essere: pura nell’intenzione, orientata esplicitamente solo a facilitare la salvezza mia e degli altri (a facilitare l’acquisto, la conservazione e lo sviluppo della grazia e della fede e dell’amore in Gesù). Sempre più distaccato da ogni sottinteso personale, da ogni posizione o atteggiamento di prestigio, di affermazione delle mie idee o della mia persona. Prudente e paziente nelle attese e nei molti disappunti e contrasti. Fedele nei tempi e nell’ordine e nella gerarchia degli impegni. Costante, deciso, energico e concludente: capace di vincere i temporeggiamenti dannosi, gli attriti interiori della pigrizia e di una falsa modestia o timidità. Giusto e leale, sempre amante della verità nelle cose e nei rapporti con gli uomini, alieno da ogni doppiezza. Forte nel fare proprie le cose più difficili che richiedono maggiore applicazione e sforzo (specie di pensiero, di raccoglimento e di meditazione scritta) e nell’affrontare le prove più dure e le scelte più difficili.
Aperto alla critica, senza polemicità e senza disappunto; e insieme fermo e virile nelle decisioni. Magnanimo, consapevole dell’ampiezza dei problemi e dei doveri, vigoroso nel superare gli ostacoli esterni e nel superare le molte infantilità o i continui impicciolimenti cui certe mie abitudini o preferenze inclinano.
Specificamente e direttamente sempre rivolto a fare il bene dei poveri e degli umili, a soddisfare le attese di giustizia e di pace della povera gente, a sentire i gemiti degli afflitti, degli oppressi, dei disoccupati. Non ridotto a un piccolo giuoco personale o di partito, ma veramente ed efficacemente operante per la costituzione di nuove strutture sociali e politiche e di un nuovo metodo e costume di azione politica.
Preparato con grande purezza, e molta preghiera e mortificazione, in modo che possano essere visti nella loro luce più limpida i grandi problemi, specie le questioni più difficili o incerte (come quelle internazionali). Pacifico e pacificatore: che vuole la pace all’interno e la effonde a tutti coloro con cui viene a contatto e opera per la pace all’esterno.
Infine ubbidientissimo nella regolarità e nello zelo non umano e personale, ma solo in spirito di ubbidienza, veramente religioso. Povero e in nulla attaccato a quelle certe modalità di lavoro con quella certa agiatezza di mezzi e a quei certi collaboratori. Così l’attività politica deve essere fatta oggetto degno della consacrazione, richiesta dalla mia mancipazione religiosa e dallo spirito particolare del nostro Istituto.
Attività politica ormai comunicata con Gesù, impastata dal Suo sangue. Solo per Lui. Solo Lui. Nulla di me e per me. Quel tanto che riuscirà positivo e benefico è Suo, fatto da Lui. Il resto purtroppo è mio, fatto da me. Ma questo deve ridursi sempre più. « Egli deve crescere e io diminuire » (Gv 3,30). Occorre che nell’attività politica il mio spirito sempre più diminuisca e invece il Suo si accresca e grandeggi. Perciò se il programma, proporzionato alle mie debolezze e alla mia precedente esperienza di tanti fallimenti (generici e specifici, proprio in questo campo della purificazione e razionalizzazione umana e dell’orientamento sovrannaturale della mia attività politica), appare inattuabile, non disperare. Sempre più debbo abbandonarmi all’azione dello Spirito. Deve essere sempre più chiaro che non sono io ma è lo Spirito che agisce («coloro che sono mossi dallo Spirito »). Fino adesso, fino cioè che ho preteso di agire io, non ho concluso nulla.
Lo Spirito vuole guidarmi e sa dove. Io soltanto non debbo porre ostacoli.
2. – da: Appunto personale (1951) (in: La coscienza del fine, Ed. Paoline 2010, p. 140.143)
Questo testo del 1951 è un appunto personale dove Dossetti, che era già un laico consacrato, fa il punto con se stesso e mostra il ruolo centrale e ben determinato che dava al lavoro come strumento di una radicale ricerca di povertà effettiva per uscire dallo stile di vita borghese. Povertà e lavoro sono percepiti come mezzi donati da Dio, vincolanti ed esigenti, da abbracciare con grande decisione.
L’anno scorso (1950) l’impegno è stato impegno astratto: ho presunto fissare delle mete senza stabilire i mezzi perché ho presunto di raggiungerle da solo. Quest’anno, invece, l’impegno deve essere concreto, cioè riprendendo i fini stabiliti l’anno scorso, specificarne i mezzi, gli strumenti e le vie. Ben sapendo che anche questi mezzi non me li procuro io, ma me li dà Lui, il Signore. Cioè me li danno le Sue viscere di misericordia, ossia lo Spirito Santo a cui io debbo corrispondenza e grata docilità. I mezzi, dunque, che lo Spirito evidentemente mi preordina come quelli che debbo considerare più immediatamente condizionanti e perciò obbligatori, sono:
[…] 6) La richiesta continua, insistente, continuamente ravvivata nei suoi motivi, avvalorata da mortificazioni e dalle preghiere degli altri, come della più grande grazia da ottenere per me nel prossimo periodo della mia vita, cioè lo spirito di distacco e di povertà, povertà non solo affettiva, ma effettiva, nella privazione sentita di cose anche necessarie. E perciò finalmente il salto, l’uscita fuori dall’ambiente, dalle condizioni, dallo stile di vita del mondo borghese (per ora questa povertà sembra opportunamente configurarsi come assoggettamento a una condizione di vita conforme a quella di un operaio, nello stipendio che dovrebbe essere limitato a una quota del mio stipendio reale e tale da costringermi a restrizioni e a « storni » di bilancio entro limiti rigidi; nell’abitazione e nell’abito, nell’orario di lavoro, nel modo di andare e tornare dal lavoro, ecc.). Quindi come povertà nettamente differenziata, nel contenuto materiale e nello spirito, da quella cenobitica e anche da quella fratesca.
3. – da: Problematica sociale del mondo d’oggi (1951) (in: G. Trotta, Giuseppe Dossetti. Scritti politici, p. 272)
La conferenza da cui è tratto questo testo si colloca in un periodo cruciale della esperienza politica di Dossetti. Era ormai chiaro che si erano esauriti gli spazi per la sua prospettiva politica e si presentava, quindi, come il suo testamento politico. Nella conferenza da una parte prospettava per sé e per alcuni amici la ricerca di strade diverse dall’impegno politico di partito; dall’altra dava l’indicazione di una via per quanti nel partito vorranno ancora continuare l’attività e la testimonianza politica. Nelle righe qui riportate si sottolinea particolarmente la necessità di inserire i singoli atti di governo in un contesto che voglia strutturalmente promuovere la partecipazione della gente e rompere con il passato di privilegio ed esclusione.
L’attrazione verso i poveri non deve nascere solo dall’ansia di fare loro del bene, di dare loro qualcosa di più — più pane, più lavoro — ma dall’ansia di «renderli qualcosa di più», cioè partecipi attivi della comunità politica. Nel ritmo della vicenda storica la partecipazione al progresso sociale è, infatti, indissociabile dalla partecipazione al progresso politico, alle istituzioni, cioè, con le quali si realizza sempre più l’autogoverno e la continuazione del proprio e comune destino. Non basta essere per la riforma fondiaria- siamo disposti o no ad estirpare le istituzioni che hanno agito storicamente come punto di cristallizzazione delle forze privilegiate che scattavano a blocco per impedire ogni rinnovamento (come agì la Corona nel ’98, nel «Maggio radioso», nel ’22)? Vogliamo o no estirpare da alcune regioni l’agrarismo come base fondamentale e centro di infezione per il fascismo? La premessa di ogni soluzione — oggi — in Italia, ritorna sempre quella anticipata nei «criteri»: individuare l’atteggiamento di fronte alla scelta primordiale pro o contro quella situazione storica il cui sbocco fatale in Italia è stato il fascismo. Molte riviste in campo cattolico che sdottoreggiano di partecipazione agli utili e di riforma agraria, ci dicano prima se sono per la Monarchia (quella Monarchia) o per la Repubblica. Se siamo d’accordo su questo, allora le modalità tecniche potranno essere discusse: né ci si fermi agli errori, tecnici, quando anche essi nascono dalla esasperazione contro una situazione anormale e feudale.
4. – da: Piano di studi (dicembre 1953) (in G. Dossetti. Prime prospettive e ipotesi di ricerca, a cura di G. Alberigo, Bologna 1998, Appendice III, p. 110)
Nel piano di studi per il gruppo di giovani laici riuniti a Bologna nel «Centro di documentazione», i prevedibili momenti di difficoltà e fallimento del lavoro sono posti in rapporto diretto con la condivisione delle sorti dei poveri. È sentito come proprio dei “minimi”, infatti, il lavorare non potendo quasi mai verificare il significato e l’utilità del proprio sforzo. E richiede uno sforzo di perseveranza nonostante tutto.
Non possiamo sottovalutare le tentazioni della nostra impazienza, che nonostante ogni dichiarazione e ogni proposito ci farà desiderare e cercare con ansia dei risultati visibili a breve scadenza; come non possiamo dissimularci gli ostacoli, anche gravissimi, che la congiuntura generale (non soltanto del nostro Paese) potrà moltiplicare, forse anche molto presto, contro i nostri programmi. Questi dovranno essere costruiti in modo da valutare in anticipo, il più possibile, anche le situazioni più avverse, ma da essere poi rispettati al massimo, nonostante qualunque emergenza.
D’altra parte, proprio in queste prospettive di lentezza, di difficoltà, di oscurità prolungate, di ineliminabile e costante durezza, il nostro lavoro:
– potrà rivelare la sua vera sostanza di lavoro, di creazione e di fatica a un tempo;
– potrà costituire il controllo, autentico e realistico, della nostra vocazione;
– potrà attuare la nostra parificazione effettiva (e non soltanto affettiva) ai minimi, che tanto spesso lavorano senza poter verificare momento per momento il significato e l’utilità del loro lavoro;
5. – da: La Forma communitatis (1954) (in: La Piccola Famiglia dell’Annunziata. Le origini e i testi fondativi 1953 – 1986, Ed. Paoline 2004, pp. 66-68)
La Forma communitatis è uno scritto che traccia un primo quadro di riferimento per la comunità di studiosi raccoltisi attorno a Dossetti a Bologna e porta avanti l’esigenza di una consacrazione religiosa. Il testo seguente mostra tutta la consapevolezza della chiamata ad assumere, come comunità, la sorte dei minimi ed essere dei loro. Lo sguardo di amore di Cristo infatti ha privilegiato gli umili, le vittime di una enorme ingiustizia a cui neanche la comunità cristiana mette riparo perché la linea di divisione fra oppressi e oppressori passa anche attraverso la Chiesa. Per Dossetti non si tratta solamente di servire i poveri, ma di essere poveri, di adorare il Signore nei minimi, coi minimi e da minimi.
Il lavoro non è che una frazione della nostra convivenza, che vuol essere assunzione totale di una sorte, ed è in essa che si compie la nostra adorazione.
Se il lavoro è incluso in essa, è la convivenza che detta il perché e il come del nostro lavoro, e per questo il nostro lavoro veramente non ha un fine; il perché e il modo è definito dal fatto che noi vogliamo adorare il Signore nei minimi, anzi coi minimi e meglio da minimi: essendo con loro e in loro, chiedendo al Signore di diventare sempre più « loro », perché il dono del Signore a loro, che è la nostra famiglia stessa, sia consumato in una trasformazione di noi in essi: in tutto quanto vi è in essi da assumere, tranne l’atto del peccato. Il Signore ci possa sempre trovare nella loro schiera; certo ci ha amati fin dall’inizio come una famiglia « di loro »: mai il suo sguardo d’amore è più completo, la sua compiacenza di noi è più completa che quando ci trova, in spirito ancor più che materialmente, immersi fra loro, in questa moltitudine di quei piccoli, disprezzati, oppressi, offesi, « divorati », in cui si è trovato a vivere realmente egli stesso. In spirito ancor più che materialmente: poiché se la nostra adorazione comune e continua avviene nella convivenza con loro, non ci deve essere momento della nostra giornata in cui noi non portiamo in noi tutti loro, nel grado in cui possiamo portarli, portando sempre di più, fino a portare veramente nel cuore, ogni momento, in ogni atto del nostro lavoro, della nostra preghiera e del nostro riposo, i minimi di ogni terra. Che questo sguardo amoroso del Signore ci assimili e ci trasformi sempre più, ci consumi in loro, perché questa è la forma della nostra consumazione, della nostra consacrazione: «Per loro io consacro me stesso, perché anch’essi siano consacrati nella verità » (Gv 7, 1 9) .
Questo è l’apice del nostro essere: la consacrazione, dono dei doni, il carisma delle nozze divine non è per noi ma per gli altri, e questo vale per ogni « consacrato». « Per loro »: per tutti, per tutta la Chiesa, ma in essa per noi una preferenza impegnativa per i minimi di ogni terra. Perché sono i preferiti di Gesù, perché sono le vittime di una enorme ingiustizia a cui né il mondo né la Chiesa oggi mettono riparo e, infine, la causa più drammatica e più profonda, perché la linea di divisione fra oppressi e oppressori passa anche attraverso la Chiesa.
6. – da: La Piccola Regola (1955) (in: La Piccola Famiglia dell’Annunziata. Le origini e i testi fondativi 1953 – 1986, Ed. Paoline 2004, p. 89)
La Piccola Regola (1955) sintetizza in poche dense righe il valore religioso del lavoro e pone alcune norme che lo regolano e lo indirizzano (cfr. commento di G. Nicolini nel testo n.24. – . Ritorna il pensiero di un lavoro preordinato e zelante, strumento di purificazione interiore e mezzo ordinario di evangelizzazione, privilegiato rispetto a ogni forma verbale di annuncio o predicazione. Il lavoro è poi connesso strettamente al voto di povertà. Nella Nota integrante si evidenzia il valore del lavoro concorde e responsabile come elemento rigenerante, capace di ricreare il tessuto fondamentale della comunità.
- 10: Il lavoro: è obbedienza, prolungamento dell’Eucaristia e della Liturgia delle ore e oggetto normale della nostra offerta: quindi preordinato, custodito e compiuto con zelo religioso; strumento regolare della nostra mortificazione, del nostro amore per le anime e del nostro annuncio abituale, da preferirsi normalmente a ogni altra penitenza od opera di bene. Salvo ragioni di salute, deve essere almeno di trentacinque ore alla settimana.
- 13: Il voto e la virtù della povertà ci impegnano: […] a lavorare per vivere e a versare alla comunità ogni nostro provento, ricevendo da essa il vitto, il vestito, l’abitazione e ogni oggetto d’uso; a consegnare totalmente l’impiego del tempo, che deve essere ritenuto non nostro, ma di Dio e della Chiesa;
Nota integrante: […] La Regola di san Benedetto ci dà il senso vero della comunità come scuola di servizio divino e come famiglia sovrannaturale, in cui nulla si antepone a Cristo e in lui tutti ci si ama di casto amore: famiglia che nasce e si rigenera ogni giorno nella divina liturgia e nell’obbedienza filiale e reciproca, nella lectio divina, nel lavoro fraternamente concorde e responsabile.
1.B La mortificazione insita nel lavoro.
7. – da: La Forma communitatis (1954) (in: La Piccola Famiglia dell’Annunziata. Le origini e i testi fondativi, Ed. Paoline 2004, pp. 68-71)
Ancora un estratto dalla Forma communitatis segnato da una grande tensione ideale. Il linguaggio per la sensibilità contemporanea è duro e richiede uno sforzo per comprendere profondamente i valori in gioco. La consacrazione a favore dei minimi della terra comporta una violenza: essere divorati con loro dall’oppressione e divorati per loro dallo zelo della loro santificazione nella verità. Così si sente la necessità di una consacrazione radicale, segnata da sacrificio e separazione, protesa ad adorare Cristo presente nei poveri e in cui il lavoro ha un ruolo centrale perché la sua durezza è la misura della partecipazione attiva alla croce dei minimi.
Questo è l’apice del nostro essere: la consacrazione, dono dei doni, il carisma delle Nozze divine non è per noi ma per gli altri: questo vale per ogni ‘consacrato’. “Per loro [consacro me stesso, Gv 17,19]”, per tutti: per tutta la Chiesa: ma in essa per noi, una preferenza impegnativa per i minimi di ogni terra. Perché sono i preferiti di Gesù, perché sono le vittime di una enorme ingiustizia a cui né il mondo né la Chiesa oggi mettono riparo e infine, la causa più drammatica e più profonda, perché la linea di divisione fra oppressi ed oppressori passa anche attraverso la Chiesa.
“Per loro consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità”: non solo un dono generico ai poveri, ma la consacrazione in olocausto al Signore perché questa menzogna di una falsa giustizia sia bruciata dal fuoco della sua giustizia: in cui brucia il nostro olocausto.
Noi siamo divorati da questo zelo, da questo fuoco, che è veramente lo zelo della casa del Signore, lo zelo con cui Gesù ha scacciato i mercanti dal tempio. Che il Signore ci conceda che noi siamo sempre divorati con loro dall’oppressione e divorati per loro dallo zelo della loro santificazione nella verità.
E’ su questa ingiustizia che deve scaricarsi tutto il nostro senso di ribellione: la nostra adorazione non è tale se non è esplicitamente consapevole dell’enormità di tale ingiustizia, il cui peso, il cui spessore di macigno non può essere vinto che con un’enorme violenza: la nostra adorazione non ha veramente per oggetto il Dio santo e santificatore se non porta in sé il senso dello sforzo che bisogna fare per vincere questo immenso male.
Non ci può non essere in noi un grande impeto di violenza; questa violenza reale, necessaria per vincere il male, è proprio il nostro consacrarci per essi nella consumazione del nostro sacrificio e della nostra separazione: la nostra è una posizione violenta.
Poiché violenti oggi non possiamo non essere: e lo siamo assoggettandoci a questo peso di giustizia per sollevarlo con la forza della risurrezione: come Cristo ha vinto la morte solo subendola e perciò l’ha debellata.
Se sposiamo Gesù in loro diventiamo veramente partecipi della sorte sua in loro: non solo quindi della sua morte, ma anche della sua risurrezione. Bisogna che sempre più penetriamo il senso dello sposalizio con Gesù in loro: dobbiamo sempre più in essi vedere ed adorare, per amore, il nostro Sposo morto e risorto e glorioso.
[…] Tutto il nostro silenzio, tutta la nostra giornata di silenzio deve essere sempre più riempito di questo significato, della presenza dei nostri poveri sofferenti e gloriosi, dell’attesa della manifestazione di questo mistero. E dobbiamo sempre più sentire il nostro rapporto con loro come un rapporto sacramentale, che ha nella croce la sua causa, nella grazia il suo effetto, nella partecipazione della gloria il suo “pronostico”. Fase e porzione di questa convivenza è il lavoro, che non può non prendere per noi un’emergenza sempre crescente.
Dobbiamo sentircene sempre più responsabili perché è anche in proporzione del grado del nostro impegno in esso che si realizza realmente la nostra partecipazione attiva al sacrificio sanguinoso dei minimi: alla croce loro. E’ un lavoro che non può essere altro che molto duro: garantita la nostra pace interiore, non importa niente se le nostre forze si fiaccano e anche se dobbiamo crollare sotto il lavoro: non importa che ne siamo schiacciati: se il Signore ci ha chiamato ad essere di loro, se in verità ci ha rivelato che noi siamo dei loro per scelta sua e per vocazione, non possiamo sottrarci all’essenziale della loro sorte: anzi non possiamo sottrarci a niente della loro sorte, almeno man mano che vediamo che cosa questo implica per ognuno di noi e per tutta la nostra Famiglia.
E’ certo che su questo punto è necessario controllarci di più: denunciare da una parte le nostre stanchezze ma dall’altra parte anche i nostri allentamenti, in modo da poter veramente fissare con esattezza “all’osso” il limite massimo della nostra possibilità di lavoro.
Il nostro lavoro dev’essere pesante, faticoso, sanguinoso, almeno nella misura in cui lo può essere senza tentare Iddio.
Del resto il lavoro è anche un grande purificatore ed è per noi anche veramente la misura del nostro progresso contemplativo; potremo pensare di essere maturi per un maggior impegno contemplativo solo nella misura in cui il Signore ci avrà dato di interiorizzare la preghiera nel lavoro.
8. – da: La Forma communitatis (1954) (in: La Piccola Famiglia dell’Annunziata. Le origini e i testi fondativi 1953 – 1986, Ed. Paoline 2004, pp. 72-73.75)
Il lavoro è una parte fondamentale del farsi poveri e, contemporaneamente, uno strumento di purificazione interiore, che sarà massima non nel contrastare le proprie capacità ma nell’usarle lavorando con grande scrupolo e rispetto dei doni di Dio.
Il nostro lavoro, se è veramente « reale », se cioè è veramente una porzione della nostra convivenza coi minimi, non ha un fine, ma non può non avere un senso. Se siamo dati a loro, se viviamo fino in fondo le loro sofferenze, non possiamo amarli nel cuore, adorare in loro il Signore, senza che tutta la nostra vita, e quindi anche il contenuto del nostro lavoro, del modo con cui spendiamo e bruciamo le nostre forze, sia orientata a loro. Li ameremmo per scherzo, adoreremmo il Signore per finta se non prendessimo molto sul serio il fatto dell’essere oramai veramente, fisicamente, dei loro. Ora questo vuol dire sì al patire in silenzio, pregare e adorare, vuol dire soprattutto credere nella loro gloria nascosta, ma non può non voler dire anche servirli con tutto ciò che abbiamo. Come sarebbe irreale che vivessimo affettivamente le loro privazioni e la croce del lavoro, così sarebbe irreale che non mettessimo al loro servizio tutti i talenti che il Signore ci ha dato. Non possiamo seppellirne nessuno, tanto più che sono veramente di tutti loro. Non possiamo derubarli della nostra preghiera per loro, del nostro silenzio, della nostra continua offerta del nostro e del loro lavoro sacrificale, ma nemmeno possiamo derubarli della luce di intelligenza che il Signore ha messo in noi per tutti loro: dell’esperienza e della conoscenza del mondo e della storia che, vissute fra loro, sono vissute per loro e, alla fine, come da loro.
[…] Del resto pensiamo che la maggior forza purificatrice, nonostante tutto, stia proprio nel fare il proprio lavoro: è vero, fare un lavoro che non è il proprio è duro, è una crocifissione continua. Ma fare il proprio lavoro taglia più a fondo nell’amor proprio, nel desiderio di evasione, nell’accidia che sta sempre al fondo di noi. Poiché al nostro posto non c’è scusa, non c’è scampo: si debbono veramente dare le primizie, ogni pezzo di lavoro deve essere indefinitivamente perfezionato, perché è certo che il Signore ci ha dato le grazie e le forze per farlo, purché noi non poniamo ostacoli e ci lasciamo assumere veramente nella potenza con cui il Padre eternamente opera, e anche il Figlio, e in lui anche noi. Allora veramente, in questa obbedienza totale, attenta, di ogni istante, di ogni fibra del nostro essere, il nostro lavoro viene assunto e diviene «opera di Dio».
9. – da: Istruzione a Mattutino, Venerdì santo 1976 (in: Omelie e istruzioni pasquali 1975 – 1978, pp. 63-64)
Questo brano si colloca circa 20 anni dopo il testo precedente, ma conserva lo stesso senso del lavoro come concretizzazione dell’offerta di se stessi a Dio. L’operare il bene, l’accettare la mortificazione e il vivere in obbedienza passano attraverso l’elemento fondamentale del lavorare per vivere, che inserisce la comunità nella vita reale e non l’espone a fughe spiritualiste.
Un punto concretissimo di incarnazione di questa offerta [di noi stessi] è il lavoro, ed è la prima delle cose che realizzano quello che dice Paolo rispetto al proprio corpo (cfr. 1Cor 4,11-12; 1Ts 2,9; 2Ts 3,7-8). Vale per qualunque tipo di lavoro: se lavoro manualmente, c’è la fatica che castiga il mio corpo, ma se lavoro seriamente dal punto di vista intellettuale, non tanto come arricchimento dello spirito ma come fatica, come ponos, anche quello castiga bene il corpo. Quando, in un certo periodo della mia vita, ho lavorato sul serio, l’ho sentito. E anche adesso, quando mi capita di passare una giornata perfettamente assoggettata all’obbedienza, sia pure ad ascoltare delle persone con l’attenzione vera dell’anima ma anche con una certa propensione del corpo, sento che c’è poi una stanchezza, uno schiavizzare il corpo (cfr. 1Cor 9,27).
Il lavoro intellettuale, per esempio, ha sempre due fasi (ne ha anche di più ma ne ha sempre almeno due, specialmente se è un lavoro intellettuale inventivo). C’è una prima fase di ricerca pura e di pura inventività, e questo è, sì, lavoro, specialmente se fatto in obbedienza, ma è accompagnato da una grande carica di curiosità, di tensione, di slancio e quindi ha delle autocompensazioni molto forti. Ogni volta che io cominciavo un libro nuovo e dovevo affrontare un nuovo tema, c’era sempre una fase di questo tipo, che evidentemente era una fase eccitante o, perlomeno, faceva piacere, dava una certa consolazione, portava qualche risultato intravisto e intuito: quindi non era ancora vera fatica. Poi invece seguiva la seconda fase, la più lunga, in cui tutto doveva essere realizzato: non era più l’intuizione vaga ed esaltante, ma la fatica della ricerca minuta, della documentazione ecc. Quando lavoravo io quarant’anni fa, per esempio, non c’erano le fotocopie e mi sono dovuto trascrivere a mano, con mesi passati all’Ambrosiana di Milano, pagine e pagine di cose che mi occorrevano. Adesso si fa alla svelta: si stanzia una certa somma per una ricerca e si fanno fare con larghezza fotocopie. Io, invece, avevo mucchi di carta trascritta a mano. Per mesi e mesi, anni interi, tutti i pomeriggi all’Ambrosiana andavo a rimuovere quei grossi volumi che gli addetti della biblioteca non volevano neanche andare a prendere, tanto erano pieni di polvere perché nessuno ci si era avvicinato da secoli; e poi lì a trascrivere. E quello non era mica un lavoro esilarante: ma non c’era niente da fare, era l’unico metodo possibile. E quello è lavoro-fatica anche se è lavoro intellettuale, anche se non è certo il lavoro in miniera o una condanna ad metalla, a scavare carbone o ferro. È però una fatica, che magari va avanti degli anni. Per una intuizione avuta, devi lavorare degli anni e andare a cercare, leggere testi e trascriverli. Anche questo è redigere in servitù il corpo in cose concrete che non consolano ma soltanto affaticano.
Dentro questo discorso c’è tutto: c’è anzitutto il problema della castità, c’è il problema del lavoro che si intreccia con il problema della povertà e con quello dell’obbedienza, che sono fatica. Sento sempre di più la povertà come la presenta la Regola: dovremo tornare a quel paragrafo fondamentale dove appunto si intrecciano il problema del lavoro, quello della povertà, quello dell’obbedienza e quello della mortificazione, perché è detto testualmente che per noi il lavoro, quel lavoro che porta a mantenersi con la propria fatica, è l’opera di bene fondamentale, è la mortificazione fondamentale, è l’obbedienza fondamentale. Non ne abbiamo altre, ed è anche la povertà fondamentale, basale. Non è detto che la povertà sia la miseria o lo squallore. Prima di arrivare alla miseria o allo squallore, dobbiamo realizzare per lo meno quel tanto di povertà che oggi grava sulla media degli uomini, che si mantengono con il loro lavoro. Infatti c’è un certo tipo di povertà che è comune a tutti gli uomini oggi (ormai uomini che vivono di rendita ce ne sono pochi!): quello di dover lavorare per vivere. Ed è anche ciò che modifica così grandemente il volto della società: per esempio, tutto quel fenomeno così colossale e così impressionante che è il femminismo dipende soprattutto da questo fatto: che la donna lavora. E di qui tutte le conseguenze. Di qui anche il nostro situarci in modo realistico nella società di oggi. Di qui anche la possibilità di una confutazione di tutta la nostra vita, se noi, uomini e donne, non lavoriamo. Non possiamo saltare questo primo gradino per accedere ad altre ricerche di povertà, anche perché altrimenti viene meno la mortificazione, il redigere in schiavitù il proprio corpo e si cade nello spiritualismo. E allora una comunità degenera, non si salva: di questo sono ormai sicurissimo. Per il singolo il discorso può essere diverso — ma non è il momento di farlo — ma noi, come comunità nel suo insieme, degenereremmo e proporremmo un modello di vita sbagliato, confutabile.
10. – da: Discorso del 23 giugno 1982 alle sorelle sul lavoro
Nel discorso seguente, la fatica del lavoro viene collegata all’offerta di Cristo al Padre rinnovata in ogni Messa. Dossetti non si compiace della dimensione penosa del lavoro ma semplicemente la rileva e valorizza. Si noti come, soffermandosi ad analizzare il rapporto tra lavoro e malattia, sottolinei la forza positiva del lavoro come arma sanante le nostre infermità.
Nella regola, dopo aver detto che il lavoro è obbedienza, prolungamento dell’Eucaristia e della Liturgia delle ore, è detto che è oggetto normale della nostra offerta. Che cosa offrite voi [a Dio] durante il giorno dopo la messa? La cosa più abituale è il lavoro, la più oggettiva anche, il contributo nostro all’offertorio. L’offerta fondamentale è la vittima stessa, innocente e pura, è il Cristo stesso, e noi ci associamo all’offerta che Lui fa di se stesso; offrendo Lui stesso principalmente. Ma poi, secondariamente, offriamo anche cose che possiamo credere (e anche su questa credenza c’è da dire) più nostre e offriamo abitualmente il nostro lavoro.
Offriamo anche la nostra sofferenza. Non c’è dubbio che quando siamo malati, offriamo una cosa eminentissima che ancora più del lavoro ci unisce all’offerta di Cristo, cioè la malattia. I padri del deserto hanno sempre considerato la malattia come l’offerta ottima, che più si avvicina a quella del Cristo e che non solo dispensa, ma ultra-compensa il lavoro, perché è una cosa più facile, più dura, più completa. Offriamo dunque nelle nostre malattie al Signore qualcosa che va oltre il lavoro per la sua preziosità.
Però se le sofferenze sono una cosa non proprio riducibile a malattia, quando per esempio sono dovute a un nostro modo molto vibrante di sentire la contraddizione o l’offesa? Non possiamo generalizzarle troppo. C’è sofferenza e sofferenza. C’è una sofferenza che non impedisce il lavoro, anzi è compensata e guarita dal lavoro, e quando in questi casi noi ci abbandoniamo alla sofferenza così da non lavorare o quasi, non possiamo invocare la nostra sofferenza come una ragione di dispensa. Qui il demonio ci imbroglia. Credo veramente che lo sappiamo distinguere, ma il fatto è che non sempre lo vogliamo distinguere. Sappiamo distinguere il caso in cui la sofferenza è veramente un po’ paralizzante e il caso in cui basterebbe mettersi a lavorare con un buon proposito perché pianino pianino la sofferenza scompaia o quasi non ci ricordiamo più di essa e del motivo che la aveva generata. Qui vi prego tutte di condurre un esame più approfondito, in base ad un dato sicuro che il lavoro non è molte volte impedito dalla sofferenza ed esso stesso è la migliore medicina alla sofferenza; impedisce alla fatica, che ci porterebbe alla disobbedienza, di prevalere ed essa viene curata con un rimedio che richiama assolutamente all’obbedienza e ci fa vivere l’obbedienza. Qui la realtà spirituale non coincide affatto con la psicologia, sia con quella del momento sia con quella abituale di un anima, perché appunto non solo ci sono sofferenze che vengono neutralizzate bene e puntualmente dal lavoro, ma ci sono anche delle sofferenze di un genere che consente di essere neutralizzato abitualmente dal lavoro, si ha una guarigione abituale. Questo è un dato fondamentale.
Poi il lavoro è lo strumento regolare della nostra mortificazione perché è quello più abituale. E’ solo questa concezione del lavoro che ci consente di prescindere nella nostra regola del tutto da strumenti di penitenza (digiuno, afflizioni di altro genere ecc.). Se poi volessimo far penitenza ne abbiamo uno fondamentale e abituale, che coglie tutti i giorni e tutte le ore in cui siamo svegli: il lavoro.
11. – da: Intervento libero al Convegno su Il lavoro nel pensiero di Giuseppe Dossetti, 15-16 ottobre 2011
Questo testo vuole mostrare alcune applicazioni del pensiero di Dossetti alla realtà odierna e, in particolare, va notata la precisazione sul rapporto tra condivisione con i poveri e volontà di cambiamento. Il pensiero di Dossetti circa l’assunzione della condizione dei minimi esclude una legittimazione della miseria e viceversa richiede una precisa tensione interiore alla giustizia e al riscatto.
In una stagione di crisi, una stagione di abbassamento, abbiamo bisogno di molta concordia. Rispetto allo slogan “serve più concorrenza”, dobbiamo cercare invece innanzitutto la “concordia”. La concorrenza come valore supremo porta alla rivalità, all’invidia, alla guerra. La ricerca della concordia porta alla condivisione e sana le possibili derive della concorrenza.
Dossetti, nella Piccola Regola, afferma che il “lavoro fraternamente concorde e responsabile” è capace di rigenerare la comunità. Sappiamo bene che certe volte è difficilissimo restare concordi, però non bisogna darsi per vinti e riconquistare sempre questa dimensione. Così dall’esperienza del monastero cerco di trarre una indicazione semplice e concreta più generale, che credo utile in un momento dove aumentano le persone senza un salario garantito. Faccio la mia proposta che chiamerò “ricetta del convento”. La ricetta del convento è che i lavori retribuiti son pochi eppure bastano per tutti. Nonostante il numero dei fratelli, cioè di potenziali portatori di reddito, in quanti stiamo maturando una pensione lavorativa? In pochissimi. Le attività retribuite e le posizioni pensionistiche aperte sono pochissime però insieme a quei pochi che lavorano a salario ci sono altri che fanno cose diverse ma necessarie a far girare la baracca; poi, quando c’è qualche emergenza in qualche settore, tutti convergono per aiutare e, viceversa, quando c’è crisi di lavoro retribuito non si resta fermi ma si va a fare altre mansioni di casa. Chi poi ha la pensione la mette a disposizione di tutti, senza differenze con chi ha sempre lavorato in casa.
In monastero si cerca in qualche maniera di condividere quello che viene e di ridurre le esigenze, come dovrebbe avvenire in una vera famiglia, ma oggi in occidente ne siamo spesso incapaci. Mi pare allora che possa essere necessario fare una cosa del genere e ritrovare la solidarietà tra familiari e tra persone che la vita ha legato. E poi anche “soccorrersi”.
Io penso che la stagione di crisi debba necessariamente aprire una stagione di soccorso, un tirare su quei naufraghi che trovi con la tua barca. Non puoi disinteressarti dicendo “io sto a malapena a galla”, in qualche modo una mano devi dargliela. Mi ha colpito molto l’intervento brevissimo fatto da Massimiliano ieri dopo la cena che diceva: “la precarietà del lavoro disturba la testa”, fa sbandare psichicamente. Sì. Effettivamente questa è la nostra realtà. Viviamo in una società che soffre una gravissima precarietà degli affetti: nelle nostre famiglie di origine, tra i nostri genitori o nel rapporto con fratelli o parenti, e nelle famiglie che formiamo, nelle storie che cerchiamo di iniziare. Vite insieme che poi si perdono. Abbiamo un grandissimo squilibrio negli affetti e abbiamo uno squilibrio nel lavoro. Questi due punti per don Giuseppe erano strutturanti. La prima cosa che ti chiedeva era “lavori? studi? Finché non emerge qualcosa di chiaro, continua a farlo! Raggiungi le cose che ti sei posto come obiettivo. E anche negli affetti: a un certo punto bisogna sposarsi, bisogna decidersi a scegliere una via”. Lui ammoniva a mettere dei pilastri sui cui appoggiarsi per la propria vita. Ora noi abbiamo tanta gente che non ha né l’uno e né l’altro di questi sostegni, ed è proprio nella testa che patisce le conseguenze. Per questo io dico che dobbiamo soccorrerci e dobbiamo riuscire ad appoggiarci. E se qualcuno ha due gambe che aiuti un po’ gli altri che zoppicano.
Un’ultima cosa: della “mortificazione” si è detto tantissimo e anche della “assimilazione ai minimi”. Io aggiungo, per sottolineare la continuità dei “due Dossetti” (il politico e il monaco), che don Giuseppe ha sempre pensato che bisogna assimilarsi ai minimi ma non per “legittimare” che esistano i minimi, al contrario per farti tu minimo con i minimi. Lo dice sperando che la situazione cambi! C’è tutto un impegno politico in questa assimilazione ai minimi, c’è uno sforzo perché i minimi non ci siano più. Certo, anche lui sapeva che la disuguaglianza non sarà mai risolta radicalmente ma faceva una scelta di campo per combatterla. Quando una certa fascia di persone si sarà un po’ innalzata, come diceva don Milani a Pipetta, quando ti sarai un po’ tirato su, io sarò di nuovo con i nuovi poveri, mi perderai e mi troverai dall’altra parte; credo che Dossetti pensasse in un modo simile. Non è un ottica cristiana pia che alla fine legittima i poveri e fa stare tutti nel loro brodo. No, io credo che porti dentro una carica politica di lotta a favore dei poveri, per i poveri. E credo che sempre di più (la nostra comunità è l’esempio) in questa stagione noi religiosi siamo davvero dei poveri: la nostra comunità è fatta di poveri e nella stragrande maggioranza quelli che bussano alla nostra comunità sono poveri, perché è sempre più difficile che chi ha qualche “numero” si decida a fare una vita consacrata. Questo aspetto a volte ci angustia, ma forse don Giuseppe ne sarebbe stato anche contento. [P. Barabino]