Testi di G. Dossetti
1. – da: La democrazia cristiana ai lavoratori (fine 1944) (in: Scritti politici, Marietti 1995, pp. 5-10 – in particolare p. 7)
Il testo è tratto da un volantino programmatico della Democrazia Cristiana di cui Dossetti è tra gli estensori principali. Vi si trovano le linee guida di un programma di riforma che considera la particolarità della situazione italiana e insiste su azionariato operaio, lotta ai monopoli, riforma agraria tesa a diffondere la piccola proprietà. Si può notare la contrapposizione sia con il vecchio ordinamento sia con le tesi socialiste.
[…] Se lasciamo alla base le vecchie fondamenta e all’interno le stesse travature e le stesse volte, la democrazia sarà soltanto formale e il mutamento non sarà definitivo né sicuro.
Oltre le riforme politiche, bisogna dunque realizzare delle riforme nella struttura economica sociale. Non basta la libertà, ci vuole la giustizia sociale ed economica.
Le fondamenta e le pietre angolari dell’edificio devono essere le forze organizzate del lavoro.
Lavoratori dei campi e delle officine, del commercio e delle professioni, del pensiero e della penna, la base della nuova comunità nazionale sarete voi, se lo vorrete con tenacia, se vi preparerete con coscienza, se sarete capaci di iniziative disciplinate.
Noi vi chiamiamo all’organizzazione del lavoro (sindacale e professionale), a ricostituire le cooperative e le casse rurali, a sviluppare l’artigianato e la piccola industria, a rafforzare la classe dei piccoli e medi proprietari agricoli. Sono le vostre forze autonome che continueranno la società di domani. Un popolo libero e maturo, consapevole del proprio destino, non ha bisogno di dittature o di provvedimenti che deprimono l’iniziativa personale: si salva da sé.
La politica sociale dello Stato dovrà però aiutarvi e aprire la via, abbattendo gli ostacoli creati dall’egoismo umano e dallo sgoverno.
Facendo anzitutto appello a tutte le risorse disponibili e a tutte le forze sociali, lo Stato deve bandire per sempre lo spettro della disoccupazione.
Non il sussidio, ma il lavoro è la questione essenziale. Lo Stato deve fare un piano di lavori e sviluppare una politica economica in modo che ci sia lavoro per tutti, sia pure tenendo conto — ove occorra — di proficue correnti migratorie. La seconda meta della politica economica deve essere la diffusione della proprietà privata.
Bisogna mirare ad abolire il proletariato. Il tipo del salariato puro che non possiede che le braccia e la prole affamata deve scomparire.
Il lavoro deve assicurare a ciascuno non solo il necessario per il mantenimento della famiglia, ma anche il mezzo per fare dei risparmi.
Lo Stato ha il dovere di intervenire per impedire l’eccessivo accumularsi della ricchezza. La colpa principale di questa tremenda piaga della plutocrazia fu proprio lo Stato coi suoi appalti, colle sue forniture di pace e di guerra; e quindi è dello Stato anche il dovere di demolirla e renderla in futuro impossibile. L’Italia è un paese povero; se vi sono troppi ricconi, vuol dire che vi sono troppi miserabili. Qui devono puntare gli sforzi della nostra politica economica, finanziaria e fiscale.
Il nostro programma sociale
Noi non bandiamo per la soluzione dei complessi problemi economici e sociali una unica formula come toccasana di tutti i mali. La vita economica ha aspetti vari che hanno varie esigenze. Né dimentichiamo che l’Italia ha una struttura economica caratterizzata dalla piccola industria e proprietà, cui non sono applicabili sistemi e metodi adottati in altri paesi, ove la formazione di enormi impianti industriali gestiti dallo Stato è favorita dalla ricchezza delle materie prime che a noi difettano.
La varietà dunque delle riforme da noi propugnate non è frutto della mancanza di chiare linee direttive, ma del senso di realismo e di aderenza alle effettive esigenze della produzione e della giustizia sociale.
Propugnamo fra l’altro:
— il controllo fermo di tutte le coalizioni di imprese che tengono a regolare il mercato, come delle imprese singole che mirino a conquistare posizioni monopolistiche e, nei casi più gravi, da valutarsi dal punto di vista tecnico economico, la socializzazione di determinate imprese a carattere prevalentemente e fatalmente monopolistico;
— la partecipazione dei lavoratori — operai, dirigenti, impiegati — agli utili dell’impresa e l’Azionariato operaio, ove lo consentono le dimensioni dell’impresa, il carattere della produzione e le esigenze tecnico-amministrative. La partecipazione, come la cooperazione, è proposta come uno dei sistemi più efficaci per integrare e, per quanto possibile, sostituire la corresponsione del giusto salario familiare, che deve essere, comunque, il minimo e la base della retribuzione operaia;
— la casa al lavoratore, e cioè la possibilità offerta a tutti i lavoratori di poter giungere alla proprietà dell’abitazione. I mezzi idonei allo scopo sono vari e vanno dall’adozione di forme analoghe a quelle assicurative, a quelle di azioni speciali nel caso dell’azionariato del lavoro, alla revisione del regime della proprietà immobiliare urbana ecc.;
— lo sviluppo delle assicurazioni sociali;
— la difesa dell’artigianato.
Nell’agricoltura
Il riscatto delle terre da parte dei contadini con una riforma terriera che limiti la proprietà fondiaria per consentire il rafforzamento della categoria dei piccoli proprietari. L’attuazione di tale riforma dovrà farsi con i criteri più appropriati ai luoghi, alle condizioni e alle qualità dei terreni e agli aspetti produttivi. Sarà assicurato in ogni caso ai lavoratori agricoli il diritto di prelazione con facilitazioni fiscali e finanziarie per l’acquisto e la conduzione diretta dei fondi. Ma in questi casi, in cui ragioni tecniche lo impongono, le terre saranno gestite in regime di associazione cooperativa a tipo industriale, meglio rispondente talora alle esigenze della produzione. Anche la colonizzazione del latifondo dovrà trovare finalmente la sua effettiva attuazione nel complesso quadro delle riforme agrarie.
Le speranze della rinascita italiana molto si fondano su una classe libera e sana di contadini. In Italia i braccianti sono assolutamente troppi: anche i proletari della terra devono scomparire.
Propugnamo inoltre:
— una severa politica fiscale, che gravi in forma progressiva specie sui redditi non reinvestiti produttivamente e sui capitali non applicati al fatto produttivo. In generale, unificate le imposte e semplificato il sistema di accertamento, il criterio della progressività, coll’esenzione delle quote minime, costituirà il perno fondamentale del sistema tributario. Queste le linee sommarie ed essenziali del nostro programma sociale. I lavoratori sono invitati a meditarle, a integrarle con noi e soprattutto ad aiutarci a metterle in pratica. Ogni conquista sociale è frutto di tenace lavoro e di fraterna solidarietà.
2. – da: “Triplice vittoria” (31 luglio 1945) (in: Scritti politici, Marietti 1995, pp. 30 – 32).
È qui riassunto in modo esemplare il sogno politico dossettiano. Nella vittoria del partito laburista alle elezioni inglesi Dossetti vede qualcosa di assai più importante della semplice affermazione di un partito: vittoria del lavoro, ma non del socialismo. Il laburismo come partito del lavoro non si presenta come partito di classe, ma come partito della solidarietà sociale. La sua vittoria è così anche la vittoria di una democrazia che supera gli egoismi, i privilegi, le sopraffazioni e si avvia alla costruzione di uno Stato autenticamente popolare. La vittoria laburista mette fine per Dossetti a una intera epoca storica, quella aperta dalla Rivoluzione francese e conclusasi poi, attraverso lo Stato liberale, nel fascismo. Non c’è nessuna democrazia liberale da restaurare, ma solo da costruire una democrazia nuova, che si presenta con i caratteri di una autentica rivoluzione.(G. Trotta)
Trascorse le primissime ore di sorpresa, di fervore, di entusiasmo, l’esito delle elezioni inglesi appare sempre meglio come la vittoria di un mondo nuovo in via di faticosa emersione. Vittoria innanzi tutto del lavoro più che, come alcuni hanno detto, vittoria del socialismo; vittoria cioè di una effettiva, concreta e universale realtà umana, meglio che di una particolare dottrina e prassi politica concernente l’affermazione sociale di quella realtà. […] Dobbiamo parlare di un programma di concreta e realistica inserzione, al vertice della gerarchia sociale e politica, del lavoro, inteso come la prima e fondamentale esplicazione della personalità umana, come il genuino e non fallace metro delle capacità, dei meriti, dei diritti di ognuno: programma che non è logicamente né praticamente connesso con la teoria socialista e che può essere condiviso, come di fatto lo è, da altri partiti non socialisti.
In secondo luogo la «vittoria della solidarietà», più e meglio che come qualcuno si limita a dire vittoria della pace. Gli elettori inglesi rifiutando con così grande maggioranza a Churchill, vincitore della guerra, il compito di organizzare il dopo-guerra, non hanno semplicemente voluto esprimere la loro volontà di pace e il proposito di allontanare gli uomini, gli interessi, gli atteggiamenti che hanno portato alla guerra e potrebbero perpetuarla in potenza o in atto, ma ben più essi hanno voluto mostrare la loro preferenza per quelle forze e quegli uomini che, appunto per la loro qualità e il loro spirito di lavoratori e di edificatori, hanno dato prova di avere una volontà positiva e attiva per l’edificazione di una nuova struttura sociale e internazionale in cui, nei rapporti tra singoli, tra classi e tra nazioni, non solo siano psicologicamente superate, ma persino oggettivamente rimosse, le possibilità concrete di egoismi, di privilegi, di sopraffazioni e in cui siano poste garanzie effettive di solidarietà e di uguaglianza.
Infine, «vittoria della democrazia»: non solo per l’aspetto dai giornali e dai commentatori più rilevato, cioè per il fatto che, con l’avvento del laburismo al potere, la democrazia inglese entra finalmente nella linea della sua coerenza plenaria e la democrazia quasi esclusivamente formale (cioè di forme costituzionali e parlamentari di fatto accessibili solo a una minoranza di privilegiati) quale sinora è stata, si avvia a essere democrazia sostanziale, cioè vero accesso del popolo e di tutto il popolo al potere e a tutto il potere, non solo a quello politico, ma anche a quello economico e sociale; ma vittoria della democrazia in un senso ancor più profondo e definitivo che molti non considerano e forse alcuni vogliono ignorare, cioè per il fatto che per la prima volta nella storia dell’Europa contemporanea si è potuto effettuare, nonostante le difficoltà dell’ambiente (la «Vecchia Inghilterra» conservatrice per eccellenza) e le difficoltà del momento (l’indomani della più grandiosa storia militare), una trasformazione così grave, decisa e inaspettata, che tutti consentono nel qualificarla «rivoluzione» e che tuttavia questa rivoluzione è avvenuta proprio per le vie della legalità e attraverso i metodi della democrazia tipica e gli istituti del sistema parlamentare. Questo fatto è quello che riassume e corona, è quello che consacra nel presente e garantisce per l’avvenire la definitività delle altre vittorie. Ma è soprattutto quello che veramente conclude la storia dell’Europa moderna e apre non un nuovo capitolo, ma un nuovo volume, ponendo fine all’età del liberalismo europeo e preannunziando insieme la fine del grande antagonista storico della concezione liberale, cioè il socialismo cosiddetto scientifico.
3. – da: Intervento all’Assemblea costituente del 3.10.1946 (in: A. Melloni, G. Dossetti. La ricerca costituente, Il Mulino 1994, p. 138)
Nel resoconto della discussione all’assemblea costituente emerge la precisa e determinata volontà politica di Dossetti a favore di una retribuzione del lavoro che non sia soltanto rispondente alle esigenze della vita, quali possono essere quelle del vitto, della casa, del vestiario, ma anche alle esigenze dell’esistenza libera e perciò degna dell’uomo. Perseguendo questo obbiettivo, Dossetti si batterà con tutte le forze.
[Dossetti] ritiene … che un controllo sociale della vita economica, da realizzarsi attraverso certe strutture che dovranno essere più analiticamente esaminate, sia una necessità assoluta alla quale non ci si possa in alcuna maniera sottrarre, una necessità imposta dalla vita. Crede indispensabile, al fine di temperare e ridurre gli egoismi, l’affermazione di questa direttiva fondamentale che, naturalmente, dovrà concretarsi in una serie di istituti che rappresentino determinate configurazioni del diritto di proprietà, della organizzazione aziendale e della stessa funzione degli organi statali in ordine all’attività economica: tutti punti questi che dovranno essere singolarmente esaminati. Ritiene comunque che le preoccupazioni e le diffidenze … risulteranno infondate quando si affermi che la direttiva fondamentale di un controllo della vita economica, tale che orienti la vita economica stessa a vantaggio della collettività ed a garanzia della espansione di tutti i suoi componenti, deve esplicarsi con l’osservanza di alcune condizioni fondamentali. […] Un controllo sociale della vita economica che si ispiri a queste tre garanzie essenziali: effettiva democrazia politica, che consenta la più larga possibilità di critica nei confronti del modo con cui il controllo economico viene esercitato; garanzia di un minimo di proprietà personale come risultato del lavoro e del risparmio di ciascuno; articolazione, infine, dei diversi organi in cui il controllo sociale della vita economica si verrà a realizzare, in maniera che non si abbia un accentramento esclusivo e sopraffattore nelle mani dello Stato; un controllo siffatto non solo non è dal suo partito temuto come motivo di sopraffazione o di limitazione della libertà personale, ma anzi è auspicato come l’unica possibilità per dare alle libertà, espresse in termini generici ed in termini giuridici, un contributo effettivo e concreto … Ora, l’esperienza storica insegna che il lasciare libero giuoco alle forze naturali ed economiche porta ad una sopraffazione; quindi non bisogna accettare, ma si deve respingere la soluzione ottimistica del libero e spontaneo giuoco delle forze economiche (3 ottobre 1946).
[Dossetti] Fa presente in proposito come finora si sia vissuti in una società in cui le esigenze fondamentali di vita sono state sempre considerate in senso restrittivo, onde è stato possibile che vaste masse di lavoratori fossero insufficientemente compensate. Osserva quindi che risponde alla struttura economico-sociale del nostro sistema orientare l’economia verso retribuzioni del lavoro che non siano soltanto rispondenti alle esigenze della vita, quali possono essere quelle del vitto, della casa, del vestiario, ma anche alle esigenze dell’esistenza libera e perciò degna dell’uomo. Non ritiene che, come ha detto l’on. Mastrojanni, si indichi così un’utopia, in quanto non saprebbe rinunciare al sogno di avviare la struttura sociale verso una rigenerazione del lavoro in modo che il suo frutto sia adeguato alla dignità e alla libertà dell’uomo. Tali principi programmatici non avranno la possibilità di operare un miracolo, perché la loro attuazione dipenderà dalle condizioni sociali della vita politica italiana, ma serviranno almeno a una progressiva elevazione delle condizioni di lavoro nel prossimo avvenire (8 ottobre 1946).
[Il Presidente Tupini rimette in discussione un art. aggiuntivo di La Pira che pone il lavoro a «fondamento di tutta la struttura sociale e la sua partecipazione adeguata negli organismi economici, sociali e politici è condizione del loro carattere democratico»] … Dossetti avendo concorso alla formulazione della proposta presentata dall’on. La Pira, precisa che con l’espressione: «il lavoro è il fondamento di tutta la Struttura sociale», s’intende esprimere non semplicemente una constatazione di fatto, ma un dato costitutivo dell’ordinamento. Un’affermazione cioè di principi costruttivi, aventi conseguenze giuridiche nella struttura del nuovo Stato (18 ottobre 1946)
4. – da: Costituzione della Repubblica italiana (1947)
“Alla fine, vorrei dire soprattutto ai giovani: non abbiate prevenzioni rispetto alla Costituzione del ’48, solo perché opera di una generazione ormai trascorsa… Non lasciatevi influenzare da seduttori fin troppo palesemente interessati, non a cambiare la Costituzione, ma a rifiutare ogni regola. E non lasciatevi neppure turbare da un certo rumore confuso di fondo, che accompagna l’attuale dialogo nazionale. Perché se mai, è proprio nei momenti di confusione o di transizione indistinta che le Costituzioni adempiono la più vera loro funzione: cioè quella di essere per tutti punto di riferimento e di chiarimento. Cercate quindi di conoscerla, di comprendere in profondità i suoi principi fondanti, e quindi di farvela amica e compagna di strada. Essa, con le revisioni possibili ed opportune, può garantirvi effettivamente tutti i diritti e tutte le libertà a cui potete ragionevolmente aspirare; vi sarà presidio sicuro, nel vostro futuro, contro ogni inganno e contro ogni asservimento” (Dossetti, Parma 26 aprile 1995)
Art. 1: L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione
Art. 4: La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra la progresso materiale o spirituale della società.
Art. 35: La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori. Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro. Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell’interesse generale, e tutela il lavoro italiano all’estero.
Art. 36: Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunciarvi.
Art. 37: La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua funzione essenziale familiare e assicurare alla madre e al ambino una speciale adeguata protezione. La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato. La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione.
Art. 38: Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato. L’assistenza privata è libera.
Art 39: L’organizzazione sindacale è libera…
Art. 41: L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
5. – da: Luigi Giorgi, Giuseppe Dossetti e la Riforma agraria (1950-51)
In questa breve sintesi emerge l’impegno e i risultati ottenuti da Dossetti per una politica di riforme volte a dare rapidamente lavoro
Il Consiglio Nazionale [della Democrazia cristiana, Roma 16-20 aprile 1950] registrò l’elezione come segretario di Gonella, vice segretario divenne Dossetti, che assunse il ruolo di coordinatore dei gruppi parlamentari. Egli ritenne, probabilmente, di poter condurre con maggior forza, da questa nuova posizione, le sue idee di riforma. Credeva fosse giunto il momento di gettare il suo impegno in questo tentativo, senza venir meno ai suoi ideali, alla sua moralità, al suo codice di comportamento. Quella particolare situazione esigeva una prova, e Dossetti non si tirò indietro pur fra molte perplessità e molti dubbi. […] Dossetti intendeva coordinare meglio l’attività dei Gruppi Parlamentari, così da imporre un calendario fitto di lavori per riuscire, nel più breve tempo possibile, ad affrontare i provvedimenti di riforma approntati dal governo. Il lato tecnico dell’agire politico assumeva valore fondamentale, quindi, ma non in se stesso. Esso era, altresì, il veicolo per l’affermazione di un contenuto importante e fondamentale, come aveva scritto, sempre su “Il Popolo” “Il contenuto di ogni legge – soprattutto di quelle che vogliono attuare grandi conquiste democratiche – prende dimensione solamente a contatto con la realtà alla quale si applica e con il modo con cui la si applica. La realtà con cui deve prendere contatto e misurarsi la legge per la Sila, non è solo una fredda realtà di tecnica agraria, essa ha un contenuto umano che dobbiamo avere presente perché non venga snaturato lo stesso principio ispiratore della legge, e sul quale dobbiamo operare come educatori politici, per costruire sopra una terra redenta, una società libera”. (G. Dossetti, Conquista democratica, “Il Popolo”, 5 maggio 1950, ora in G. Trotta, Giuseppe Dossetti. Scritti politici, p. 359).
Il maggio del 1950 vedeva, sulla spinta dell’iniziativa dossettiana, una ripresa di vitalità della Democrazia Cristiana. […] Dossetti proseguiva il suo lavoro legislativo coniugandolo con l’interesse costante verso i giovani, che dovevano essere, attraverso l’impegno nella riforma agraria, maggiormente coinvolti nel rinnovamento del partito. Tramite questo lavoro veniva affidato loro un compito concreto e di grande responsabilità. “A proposito del problema dei giovani l’on. Dossetti – riportava “Il Popolo”, informando di un discorso tenuto da Dossetti a Bari – ha dichiarato che, se i giovani sono spesso disposti a seguire coloro che li invitano alla guerra, non possono non sentire il grande compito che offriamo loro: quello di un attacco frontale contro la miseria, per ricostruire, per dare lavoro a tutti gli italiani” (Scelba rivendica alla DC il merito di aver salvato il paese. Discorsi di Dossetti a Bari e Cingolani a Messina, “Il Popolo”, 11 luglio 1950).
[…]
Dossetti intervenne per chiedere il cambiamento della compagine governativa, attraverso un rimpasto che perseguisse e proseguisse la politica di riforme. Interessante il resoconto che il “Corriere della Sera” forniva dell’intervento di Dossetti “Ha preso la parola l’on. Dossetti il quale, pur dando atto al Governo dell’azione compiuta, ha lamentato che gli effetti di essa siano venuti a mancare, soprattutto perché i provvedimenti sono sfasati rispetto al momento in cui dovrebbero essere presi: in relazione, poi, alla esigenze nuove che richiedono, oltre ad un maggior tempismo, anche un’intensificazione dell’azione di Governo nel campo economico e sociale e nella lotta contro la disoccupazione, incrementando gli investimenti di Stato, da una parte, e dando maggior respiro al credito dall’altra, a favore dell’iniziativa privata […] ha chiesto una immediata modificazione della compagine ministeriale con la sostituzione di Pella e Sforza (in quanto la politica estera è legata oggi ai problemi economici) e con l’invito formale ai liberali e ai socialdemocratici a entrare subito nel Governo: in caso di un loro rifiuto, la DC – ha affermato Dossetti – non dovrebbe avere esitazioni a fare il Governo da sola” ( A. A, Difficoltà per raggiungere l’accordo fra le varie correnti al Consiglio della D.C, “Corriere della Sera”, 3 luglio 1951). Dossetti, quindi, rilanciava la sua linea di politica economica, ribadendone la forte connotazione sociale e il fine: la piena occupazione. Combatteva, in questo Consiglio Nazionale, l’ultima battaglia in tal senso. Il Presidente del Consiglio prese atto delle varie posizioni, ma nella risoluzione della crisi di governo, apertasi con l’abbandono della maggioranza da parte del Psli di Saragat, riconfermava Pella e conseguentemente la sua politica e quella dell’Esecutivo in materia economica. De Gasperi, inoltre, divideva, così da arginarla, la corrente dossettiana, che veniva reintegrata nella compagine governativa, dando a Fanfani il dicastero dell’Agricoltura. Il settimo governo De Gasperi segnava la fine della speranza politica di Dossetti. Maturava di lì a poco, in occasione degli incontri di Rossena, la sua decisione di abbandonare la vita politica. Si chiudeva, dunque, la breve stagione del riformismo dossettiano che aveva rappresentato un punto d’arrivo di una lunga vicenda politica e che, allo stesso tempo, misurava l’impossibilità della permanenza del professore emiliano in quello che la DC stava diventando. In special modo, però, stava a dimostrare la differenza fra la concezione di riforma di Dossetti e quella del corpo maggioritario del partito. La Democrazia Cristiana, probabilmente, non era pronta alle motivazioni che Dossetti aveva infuso nel suo impegno riformatore, così decisamente innovatore, e non capì la portata della sua visione, facendo alla lunga di queste riforme uno strumento di consenso, con forti venature clientelari nascoste dietro un anticomunismo grossolano e conservatore. Ardua era la strada per costruire uno Stato veramente democratico e vicino ai cittadini in tutte le sue articolazioni. L’impegno dossettiano si era mosso senz’altro su questa strada, partendo dal tentativo di risolvere il grave problema del Meridione del Paese.
6. – da: Intervento su Il senso del testo costituzionale nel pensiero di G. Dossetti. Relazione al convegno Il lavoro nel pensiero di G. Dossetti, 15-16 ottobre 2011. Testo non rivisto dall’autore.
Il testo commenta l’impegno costituente di Dossetti inquadrandolo nel passaggio dalla fine della II Guerra Mondiale alla elaborazione della Costituzione, e indica come le motivazioni che hanno mantenuto la centralità del lavoro sia dal punto di vista soggettivo (antropologico), che da quello politico, siano ancora assolutamente attuali, soprattutto in questo tempo in cui il lavoro è sottoposto a svuotamento e marginalità.
[…] Siamo stati abituati a considerare le sorti del diritto del lavoro e l’attuazione di questi principi costituzionali come sorretti da una base naturale, cioè da quello che è stato definito (ed è stata una grandiosa vicenda) il compromesso social-democratico. Questo vale per noi e vale per gli altri paesi del nostro mondo. Il compromesso social-democratico consiste nell’idea di scambiare una relativa moderazione salariale con l’erogazione da parte dello stato di servizi universali. È fatto di grandissima rilevanza. È molto interessante perché il risarcimento, dato ai lavoratori sottoforma di servizi universali, di ciò che veniva rinunciato in termini salariali è una risposta intelligente perché non è detto che con incrementi salariali si sarebbero ottenuti il soddisfacimento di bene primari quali la salute, l’istruzione … È stato un momento particolarmente felice e grandioso della nostra storia. Possiamo dire che questo ha rappresentato la spinta naturale, oggettiva: c’erano delle dinamiche nell’economia che portavano alla stipulazione di questo compromesso.
Per Dossetti, La Pira il resto del loro gruppo, le cose stavano diversamente. E’ un fatto da riprendere. Le prospettive di tutela del lavoro attraverso trasformazione del sistema sociale e politico, non erano basate su presunte o intuite dinamiche in qualche modo spontanee e naturali. Era tutta attività politica! Era un atteggiamento volontaristico. C’era fiducia nella capacità delle organizzazioni politiche che rappresentavano il lavoro di trasformare la struttura sociale.
Noi diciamo che siamo in una condizione disastrosa perché son venuti meno i presupposti materiali del compromesso social-democratico. Ci spaventa il fatto che non esistono più le basi materiali sulle quali costruire quel compromesso. Ora, questi uomini invece avevano una così alta concezione della politica per cui pensavano che l’organizzazione politica, in particolar modo l’organizzazione delle forze del lavoro, potesse condurre ad una trasformazione in profondità dell’intera struttura sociale. Il che ha come emblema quel fondamentale articolo “Triplice vittoria” in cui Dossetti vede nel partito laburista inglese lo strumento di una trasformazione fondamentale. Vorrei sottolineare che la vicenda della vittoria dei laburisti nel ’45 ha avuto una risonanza mondiale enorme: uno studioso come Kelsen vide in essa “la prova del fatto che gli ordinamenti giuridici occidentali potevano diventare lo strumento attraverso cui raggiungere quegli stessi fini che invece in Russia e in Unione Sovietica sono stati perseguiti con metodi totalmente diversi”. Fu veramente un avvenimento epocale che destò grandissime speranze.
Riprendo un articolo che Dossetti scrisse nel periodo della clandestinità, quando ancora aveva il soprannome di “Benigno”, riguardo il partito che si andava costruendo. Scrive: “Saranno prove di coraggio che escluderanno automaticamente i pavidi e gli imbecilli, tutti coloro che non sono disposti a difendere a viso aperto le loro idee e insorgere decisamente contro ogni tentativo di intimidazione e di monopolio totalitario; saranno prove di generosità e di superamento dell’egoismo, che pure automaticamente escluderanno gli inerti, gli ambiziosi, tutti i non disposti a dare al partito e alla ricostruzione della patria energia, attività, umiltà e denaro. In particolare, chi firma la domanda di iscrizione sappia bene che non intendiamo fare il gioco di nessuno e che quell’ansia di libertà e di giustizia che ci ha indotti a rischiare la vita per tanti mesi, in ogni giorno e in ogni ora, ci farebbe oggi con il flagello in mano contro chiunque tentasse di fare della democrazia cristiana uno strumento di suoi interessi personali o tentasse di rallentare la nostra opera distruggitrice dei privilegi e edificatrice della giustizia o anche soltanto non sapesse compiere spontaneamente per le attività e l’onore del partito quelle rinunce che le sue condizioni gli consentono e il momento gli impone”. Questa è un’idea di partito lontana da quella che si ha oggi!!
Ancora alcune espressioni, scritte da Dossetti nel 1946, in cui egli riassume quelle indicazioni politico-programmatiche che troviamo negli atti della Costituente. Leggo questo incipit bellissimo: “Le fondamenta e le pietre angolari dell’edificio devono essere le forze organizzate del lavoro. Lavoratori dei campi e delle officine, del commercio e delle professioni del pensiero e della penna: la base della nuova comunità nazionale sarete voi! Noi vi chiamiamo all’organizzazione del lavoro, di costruire le cooperative classe rurali, l’artigianato. Sono le vostre forze autonome che continueranno la società di domani”.
Ci sono altre affermazioni sintetiche, tra cui questa del 19 maggio 1946: “Si è d’accordo anche che questa Costituzione debba essere raggiunta attraverso la trasformazione della struttura industriale, nazionalizzando le grandi industrie monopolistiche , attraverso l’abolizione del latifondo e della grande proprietà terriera e infine attraverso una riforma finanziaria che democratizzi e sottoponga al controllo di organi liberamente eletti i grandi complessi finanziari e miri alla pubblica utilità e all’equa distribuzione della ricchezza con energici provvedimenti fiscali”. Si tratta di scritti politici anteriori al lavoro della Costituente.
Questo è il pensiero e il contenuto dell’attività di Dossetti costituente. Il mondo di allora era lontanissimo da quello di oggi: c’era una speranza nella forza delle forze politiche che oggi è totalmente assente. Quando Dossetti riprese il discorso sulla Costituzione [nel 1994], evidentemente lo riprese in un contesto totalmente diverso: il romanzo della rivoluzione era finito presto però la scrittura nella Costituzione di questi principi ha significato qualcosa di più che non scrivere delle parole su un pezzo di carta. E ha significato, e continuato a significare anche nei decenni successivi, mantenere un punto di vista e un obbiettivo, o per lo meno mantenere una preoccupazione. La visione più limitata e minimale che si può dare oggi è che queste norme costituzionali ci ricordino sempre che il lavoro è tra le attività umane quella che ha sempre bisogno di essere rigenerata, perché è quella oggetto di violenza, è quella di cui gli esseri umani vengono deprivati, è quella più facilmente calpestata, che ha più bisogno di essere difesa.
Si potrebbe dire questo: da una visione ottimistica palingenetica, tutti noi che difendiamo la Costituzione, si è passati ad una visione forse più limitata, forse più delusa. Però sempre fortissima e cioè la consapevolezza del fatto che le nostre società sono esposte a tensioni distruttive nei confronti del lavoro e, come tali, tensioni autodistruttive dell’intera società. Il lavoro come ciò che manca, come ciò che è debole, come ciò che è oggetto di violenza, come ciò che va protetto, è il nucleo permanente del suo significato costituzionale. [M. Dogliani]
7. – da: “Fine del Tripartito?” (15 giugno 1947) (in: Scritti politici, Marietti 1995, pp. 116 – 121:
Invito alla concreta difesa da pressioni contrapposte di un programma di riforme a favore della solidarietà popolare e della volontà di risorgimento e di progresso sociale. In particolare si ribadisce la necessaria destinazione delle nuove risorse risultanti allo Stato dai maggiori oneri, cui dovranno con urgenza essere assoggettate le classi abbienti per il salvataggio della moneta e del Paese, nell’equa ripartizione dei sacrifici fra tutti gli italiani.
Questo [la prosecuzione ad opera di un solo partito della linea di convergenza delle precedenti coalizioni tra partiti di massa], però, può avvenire soltanto sotto alcune condizioni, che si potranno meglio precisare dopo il dibattito parlamentare, la replica del Presidente del Consiglio e il voto dell’Assemblea, ma che sin d’ora si possono compendiare nei seguenti punti:
- a) che il nuovo governo e la sua azione futura non siano espressione personale del Presidente del Consiglio, ma risultante di uno sforzo organico di tutto il gabinetto (onde non sembra felice una recente asserzione del Messaggero del 4 giugno: «Il Ministero si regge più ancora che sulla Democrazia Cristiana — ed è bene che sia così — sulla persona del Presidente del Consiglio»);
- b) che il nuovo governo non si lasci deviare dalla sua linea programmatica, né dalle pressioni di piazza, che fossero artificiosamente provocate dalle sinistre, e alle quali non sempre corrisponderebbe, almeno per ora, il genuino sentimento popolare, ormai desideroso soltanto di onesta e realistica azione di governo; né dai ricatti e dalle critiche di quegli ambienti e di quella stampa, indipendente o finanziaria o neofascista, che hanno avuto negli ultimi mesi una così grande responsabilità nell’allargare la sfiducia e che già ora incominciano a stupirsi e a sdegnarsi perché «un governo senza social-comunisti s’impegna a svolgere il programma dei social-comunisti» (Italia Nuova del 10 giugno);
- c) che ogni atto del nuovo governo risulti coerente espressione dello spirito e della coscienza collettiva del Partito della Democrazia Cristiana, in quanto è la Democrazia Cristiana (e non un singolo o una combinazione di tecnici) che si è assunta la responsabilità della condotta politica ed economica del Paese in questo momento decisivo ed è la Democrazia Cristiana che può individuare, attraverso la sua azione capillare e il suo contatto diretto con le masse, i temi più concreti e urgenti di quella solidarietà popolare e di quella volontà di risorgimento e di progresso sociale, nella quale ancora a febbraio Cappi riconosceva l’impegno fondamentale della nostra vita politica;
- d) che, specialmente per quel che riguarda la politica economica, siano essenzialmente i ministri democratico-cristiani ad assumere l’iniziativa e una funzione stimolatrice a un tempo cauta e energica; mentre i tecnici indipendenti svolgano più che un’opera propulsiva un compito di controllo, soprattutto finanziario, in quanto ad essi spetta più che altro di assicurare la ponderatezza, l’imparzialità, la rettitudine di destinazione delle nuove risorse risultanti allo Stato dai maggiori oneri, cui dovranno con urgenza essere assoggettate le classi abbienti per il salvataggio della moneta e del Paese, nell’equa ripartizione dei sacrifici fra tutti gli italiani.
8. – da: Appunto personale (1950) (in: La coscienza del fine, Ed. paoline 2010, p. 130
In questo appunto spirituale Dossetti, che era un consacrato dell’Istituto secolare di Lazzati e nel pieno della sua attività politica, dà il quadro di riferimento del suo lavoro. Elenca perciò meticolosamente i modi per evitare il pericolo intrinseco della ricerca del prestigio e dell’interesse personale. È un ampio tratteggio della modalità cristiana di assumersi una responsabilità pubblica, finalizzata al bene degli umili, degli oppressi, dei disoccupati.
L’Attività Politica (14 settembre 1950, Esaltazione della Croce):
La croce deve essere piantata ed esaltata entro il complesso della mia attività politica. Non può essere diversamente: e per la natura (in senso proprio) di quei rapporti e di quelle azioni che già in sede soltanto naturale non possono essere ordinati se non con un’estrema energia morale, cioè con uno spirito eroico; e per la condizione della loro redenzione, che non può essere se non la mortificazione e la croce, a uno speciale grado di intensità, proporzionato all’estrema facilità della loro corruzione e all’estrema importanza e suprema sinteticità del loro contenuto.
Perciò quest’attività si sforzerà di essere: pura nell’intenzione, orientata esplicitamente solo a facilitare la salvezza mia e degli altri (a facilitare l’acquisto, la conservazione e lo sviluppo della grazia e della fede e dell’amore in Gesù). Sempre più distaccato da ogni sottinteso personale, da ogni posizione o atteggiamento di prestigio, di affermazione delle mie idee o della mia persona. Prudente e paziente nelle attese e nei molti disappunti e contrasti. Fedele nei tempi e nell’ordine e nella gerarchia degli impegni. Costante, deciso, energico e concludente: capace di vincere i temporeggiamenti dannosi, gli attriti interiori della pigrizia e di una falsa modestia o timidità. Giusto e leale, sempre amante della verità nelle cose e nei rapporti con gli uomini, alieno da ogni doppiezza. Forte nel fare proprie le cose più difficili che richiedono maggiore applicazione e sforzo (specie di pensiero, di raccoglimento e di meditazione scritta) e nell’affrontare le prove più dure e le scelte più difficili.
Aperto alla critica, senza polemicità e senza disappunto; e insieme fermo e virile nelle decisioni. Magnanimo, consapevole dell’ampiezza dei problemi e dei doveri, vigoroso nel superare gli ostacoli esterni e nel superare le molte infantilità o i continui impicciolimenti cui certe mie abitudini o preferenze inclinano.
Specificamente e direttamente sempre rivolto a fare il bene dei poveri e degli umili, a soddisfare le attese di giustizia e di pace della povera gente, a sentire i gemiti degli afflitti, degli oppressi, dei disoccupati. Non ridotto a un piccolo giuoco personale o di partito, ma veramente ed efficacemente operante per la costituzione di nuove strutture sociali e politiche e di un nuovo metodo e costume di azione politica.
Preparato con grande purezza, e molta preghiera e mortificazione, in modo che possano essere visti nella loro luce più limpida i grandi problemi, specie le questioni più difficili o incerte (come quelle internazionali). Pacifico e pacificatore: che vuole la pace all’interno e la effonde a tutti coloro con cui viene a contatto e opera per la pace all’esterno.
Infine ubbidientissimo nella regolarità e nello zelo non umano e personale, ma solo in spirito di ubbidienza, veramente religioso. Povero e in nulla attaccato a quelle certe modalità di lavoro con quella certa agiatezza di mezzi e a quei certi collaboratori. Così l’attività politica deve essere fatta oggetto degno della consacrazione, richiesta dalla mia mancipazione religiosa e dallo spirito particolare del nostro Istituto.
Attività politica ormai comunicata con Gesù, impastata dal Suo sangue. Solo per Lui. Solo Lui. Nulla di me e per me. Quel tanto che riuscirà positivo e benefico è Suo, fatto da Lui. Il resto purtroppo è mio, fatto da me. Ma questo deve ridursi sempre più. « Egli deve crescere e io diminuire » (Gv 3,30). Occorre che nell’attività politica il mio spirito sempre più diminuisca e invece il Suo si accresca e grandeggi. Perciò se il programma, proporzionato alle mie debolezze e alla mia precedente esperienza di tanti fallimenti (generici e specifici, proprio in questo campo della purificazione e razionalizzazione umana e dell’orientamento sovrannaturale della mia attività politica), appare inattuabile, non disperare. Sempre più debbo abbandonarmi all’azione dello Spirito. Deve essere sempre più chiaro che non sono io ma è lo Spirito che agisce («coloro che sono mossi dallo Spirito »). Fino adesso, fino cioè che ho preteso di agire io, non ho concluso nulla.
Lo Spirito vuole guidarmi e sa dove. Io soltanto non debbo porre ostacoli.
9. – da: “Conquista democratica” (3 maggio 1950) (in: Scritti politici, Marietti 1995, pp. 241 – 243
Questa nota, relativa al dibattito sulla riforma agraria per la Sila, mette in luce un problema di fondo, cioè la possibilità sempre risorgente che il principio di una norma sia poi snaturato nel suo momento applicativo.
“Una legge non si esaurisce nella sua formula. Il contenuto di ogni legge — soprattutto di quelle che vogliono attuare grandi conquiste democratiche — prende dimensione solamente a contatto con la realtà alla quale si applica o con il modo con cui la si applica. La realtà con cui deve prendere contatto e misurarsi la legge per la Sila, non è solo una fredda realtà di tecnica agraria. Essa ha un contenuto umano, che dobbiamo avere presente perché non venga snaturato lo stesso principio ispiratore della legge, e sul quale dobbiamo operare come educatori politici, per costruire sopra una terra redenta, una società libera” (p. 243).
10. – da: Testimonianza su spiritualità e politica (1993) (in: Scritti politici, Marietti 1995, pp. LVIII-LIX; testo integrale in: Il Vangelo nella storia, Paoline 2012)
In questo frammento Dossetti espone la sua convinzione sull’esaurimento delle culture del ‘900 e sulla gravità del rimescolio in atto, che richiede uno sforzo nuovo di riflessione e comprensione profonda. Il testo si chiude con l’appello alla convocazione di menti e cuori giovani contro uno sterile volgersi a soluzioni già pronte. In questo modo Dossetti spinge a sviluppare uno sforzo non solo in base alle nuove possibilità che concretamente si intuiscono ma ancor più in forza di una nuova comprensione del particolare momento storico che si vive.
[Dopo il 1989 e il crollo del muro di Berlino,] viviamo in una crisi epocale. Io credo che non siamo ancora al fondo, neppure alla metà di questa crisi. Sempre più ci sto pensando. Sono convinto che lo scenario culturale, intellettuale, politico non ha ancora esplicitato tutte le sue potenzialità. Noi dobbiamo considerarci sempre di più alla fine della terza guerra mondiale; una guerra che non è stata combattuta con spargimento di sangue nell’insieme, ma che pure c’è stata in questi decenni. Questa guerra è in qualche modo finita, con vinti e vincitori, o con coloro che si credono vinti ed altri che si credono vincitori. La pace, o un punto di equilibrio, non è stata ancora trovata in questo crollo complessivo. […]
Gli Stati Uniti cosa hanno vinto? Non si può dire che siano vincitori. È crollato il mondo avversario senza che l’Occidente se ne rendesse conto e senza che preparasse niente. Durante i due primi conflitti mondiali, nella fase finale delle operazioni militari, c’è stata una preparazione della pace, tanto nel 1917 che nel 1943-’44; oggi niente di simile: niente è stato preparato, tutti sono stati sorpresi, tutti sono stati sconvolti. La democrazia americana è finita; anche se ha vinto, non può proporre niente, e sino a oggi non ha proposto niente. Lo sconvolgimento è così radicale che noi non sappiamo quello che sarà domani, quello che sarà nel 1994, che sorprese avremo. C’è un rimescolamento completo di situazioni, siamo ritornati, in Europa, a prima del 1914. Il rimescolio dei popoli, delle culture, delle situazioni è molto più complesso di quello che non fosse nel 1918. È un rimescolio totale. In più c’è la grande incognita dell’Islam, una incognita in qualche modo imprevedibile.
Noi cerchiamo di rappresentarci questo sconvolgimento totale con dei modelli precedenti, quelli del 1918, quelli della pace di Versaglia, quelli del 1944-’45, quelli di Yalta, ma sono tutti non proporzionati, perché il rinnovamento è assai più radicale. Siamo dinnanzi all’esaurimento delle culture. Non vedo nascere un pensiero nuovo né da parte laica, né da parte cristiana. Siamo tutti immobili, fissi su un presente, che si cerca di rabberciare in qualche maniera, ma non con il senso della profondità dei mutamenti. Non è catastrofica questa visione, è realistica; non è pessimista, perché io so che le sorti di tutti sono nelle mani di Dio. La speranza non vien meno, la speranza che attraverso vie nuove e imprevedibili si faccia strada l’apertura a un mondo diverso, un pochino più vivibile, certamente non di potere. Questa speranza, globale in un certo senso, è speranza per tutto il mondo, perché la grazia di Dio c’è, perché Cristo c’è, e non la localizza in niente, tanto meno in noi. L’unico grido che vorrei fare sentire oggi è il grido di chi dice: aspettatevi delle sorprese ancora più grosse e più globali e dei rimescolii più totali, attrezzatevi per tale situazione. Convocate delle giovani menti che siano predisposte per questo e che abbiano, oltre che l’intelligenza, il cuore, cioè lo spirito cristiano. Non cercate nella nostra generazione una risposta, noi siamo veramente solo dei sopravvissuti.
11. – da: Per una testimonianza evangelica della pace (1995) (in Il Vangelo nella Storia, Paoline 2012, p. 130)
In una situazione di grave crisi economica ed occupazionale, le parole di Dossetti sono un monito contro ogni superficialità e ritardo.
Vi dico che in questo momento, se avessi qualche anno di meno sulle spalle, mi tirerei su le maniche e cercherei proprio di promuovere, a tutti i livelli, sia a quelli interpersonali e minuti sia a quelli più vasti, una revisione dei nostri comportamenti. Credo che questo debba essere un compito affidato ai più giovani: di non darsi pace se non facendo veramente opere di pace in tutti i sensi. E se posso tornare un momento a quello che scrivevo anni fa, ci vuole anche il fiuto: bisogna esercitarsi un po’ a sentire l’odore di bruciato quando l’incendio è ancora domabile. E questo non lo stiamo proprio facendo. Dobbiamo sentirci tutti personalmente e comunitariamente responsabili di quest’inerzia irrazionale e di questo grande egoismo paralizzante, di questo fatalismo, per cui la guerra sarebbe una fatalità, comparabile a quella di quegli animali polari che vanno incontro periodicamente a un grande suicidio collettivo per estinguersi o regolare lo sviluppo della specie, e così dovrebbero fare anche gli uomini. Io non mi posso rassegnare a una visione del genere. Però, se non ci interroghiamo c’è il rischio che, senza pensarci, anche noi adottiamo questo punto di vista.