Suor Maria Gallo, una della prime cinque sorelle che con Dossetti e un altro fratello diedero vita alla comunità, pone al centro del suo ricordo di don Giuseppe le omelie e particolarmente quelle delle grandi feste. Secondo la sua autorevole lettura, la celebrazione dell’Eucaristia e il commento delle Scritture alla ricerca della luce sul cammino di ogni giorno hanno rappresentato forse la punta più alta del suo magistero e della sua paternità spirituale.
Una testimonianza (Milano, 7 giugno 2003)
Mi è stata chiesta una testimonianza dall’interno della nostra vita comunitaria ed io ho scelto di parlare delle omelie di don Giuseppe, perché proprio nelle omelie mi pare di poter cogliere la punta più alta del suo magistero e della sua paternità spirituale.
Don Giuseppe ha parlato dall’altare quasi ogni giorno per circa 40 anni, compresi i lunghi decenni di rigoroso silenzio pubblico, e noi, piccola famiglia dell’Annunziata, per circa 40 anni l’abbiamo ascoltato quasi ogni giorno.
Inoltre, il materiale omiletico che don Giuseppe ci ha lasciato è di gran lunga il più abbondante rispetto a tutta la sua produzione: scritti, lezioni, conferenze. A me sembra un materiale di grandissimo interesse e vorrei richiamare l’attenzione su questo aspetto del suo magistero.
E’ vero che moltissimo è andato perduto, ma quello che resta costituisce ancora un corpus considerevole di testi, purtroppo in massima parte inediti.
Si tratta di registrazioni magnetiche che le sorelle più giovani stanno lentamente trascrivendo e preparando per la stampa. Un primo blocchetto di omelie natalizie dovrebbe uscire in libreria per il prossimo Natale.
Inutile dire che nell’arco di questi 40 anni le omelie di don Giuseppe non sono affatto tutte omogenee: variano i contenuti, il metodo, lo stile, così come variano le circostanze, gli ascoltatori, gli eventi contemporanei, grandi e piccoli. Su un punto solo c’è continuità assoluta: l’ascolto fedele della Parola di Dio, l’egemonia della Parola di Dio, come diceva.
In ogni caso io ho scelto di limitare il mio contributo a qualche osservazione sulle omelie delle grandi feste dell’anno liturgico. Qui mi pare possibile fin d’ora tentare di dirne qualcosa, attendendo che la disponibilità di un materiale sufficientemente ampio consenta uno studio più serio.
Le mie osservazioni si porteranno su tre punti: 1) le tappe di un cammino spirituale, 2) l’omelia nel tutto della celebrazione eucaristica, 3) la certezza suprema della fede: Gesù Cristo, vero Dio-vero uomo, ieri-oggi-sempre.
Mi affido, per ora, al ricordo. In particolare alcune date sono ancora vive nella mia memoria come tappe di un cammino spirituale di don Giuseppe ed anche della comunità. Sono quei momenti sorgivi in cui maturava definitivamente una nuova acquisizione teologica, una nuova chiarezza di giudizio, un’energia spirituale nuova, direi, una nuova esperienza di Dio. Nelle omelie le tappe di questo cammino risultano evidenti.
1) Le tappe del cammino
Degli anni precedenti il Concilio non ho molti ricordi, anche perché nei primi anni don Giuseppe ci proibiva di registrare; ci sono rimasti solo degli appunti personali stesi dalle sorelle o dai fratelli, molto poco. Invece ricordo molto bene lo studio e la preghiera che si faceva sui temi che poi sarebbero stati i temi del Concilio, studio e preghiera iniziati molto prima che papa Giovanni fosse eletto e annunziasse il Concilio, fin dal 1953 per lo meno, come risulta da documenti della comunità. Il Concilio è l’evento cardine della biografia di don Giuseppe e così lo registrano anche le sue omelie, che proprio negli anni immediatamente successivi al Concilio riflettono una grande dilatazione degli orizzonti della sua rifelssione teologica, storica, antropologica.
Questi anni dell’immediato post-Concilio sono anche per don Giuseppe gli anni delle grandi esplorazioni dei mondi spirituali, le Chiese d’oriente, le grandi tradizioni dell’ebraismo e dell’islam, i grandi popoli e le grandi culture dell’India e della Cina. Tutte queste acquisizioni vibrano fortemente nello spirito dell’omileta e alla luce della Parola fanno scattare nuove intellezioni, gioiose scoperte, nuova passione per il servizio del Vangelo.
Gli anni successivi portano nuove luci nella contemplazione dei divini misteri, un’esposizione più sobria, una concentrazione ancora più grande sull’essenziale e insieme molti motivi di sofferenza. Il più grave è certamente la constatazione del regresso, dell’apparente arresto del Vangelo e l’incombere sul mondo della guerra e della violenza diffusa.
Ora la guerra è lo scandalo supremo per la fede, la sconfitta più grave del vangelo. Purtroppo molte volte nei secoli passati i cristiani si sono macchiati di colpe gravissime, forse senza piena coscienza; ma oggi questa “incoscienza” non è più possibile, perciò spesso in altri interventi don Giuseppe ha affermato che occorre tagliare ogni esitazione, ogni sofisma con la spada della Parola di Dio e ripudiare risolutamente da parte del cristiano e della Chiesa ogni forma di guerra.
Alla vigilia della prima guerra del Golfo il suo dolore si faceva più acuto, ma mentre ancora una volta manifestava chiaramente il suo pensiero, nelle sue omelie ci raccomandava una concentrazione ancora più forte sulla fede e su quell’opera che più propriamente compete alla nostra piccola famiglia in quanto comunità di oranti: immergerci più decisamente in Dio, invocando da Lui il dono di una purificazione più profonda, “quella limpidità interiore, quella pace, quella moderazione, che non possono non riflettersi anche all’esterno”. Sono parole sue. Contemporaneamente ci invitatva a pregare con forza per questa nostra umanità disperata ed a chiedere le consolazioni di Dio per noi e per tutti gli uomini che sono oppressi sotto il peso di così grande angoscia. “Dobbiamo chiedere le consolazioni di Dio, ci diceva nel Natale 1990, dobbiamo affidarci al Cristo già inserito nella storia dell’umanità”. Era dunque l’invito a un grande atto di fede e di speranza, nella certezza della fede e nell’abbandono umile e sottomesso alle disposizioni divine per la storia degli uomini, ieri, oggi, sempre.
Negli ultimissimi anni, col progredire degli anni e delle infermità, le omelie di don Giuseppe si sono fatte ancora più essenziali e consolanti fino all’ultima del 6 agosto 1996, per la festa della Trasfigurazione del Signore, nella quale la sofferenza e la gioia ci sono apparse congiunte in lui per un’esperienza suprema ormai di unione col Signore crocifisso e glorioso.
Cito qualche frase di quell’ultima parola detta dall’altare quando ormai quasi non poteva più parlare: “La festa di oggi ci invita a desiderare la luce divina, escatologica, ci invita a chiederla anche per il presente in una certa misura….Bisogna impegnarsi seriamente, desiderando di assecondare il desiderio del Signore e per questo dobbiamo lasciarci purificare, per poter adorare nella pace i patimenti di Cristo e i nostri patimenti e così poi godere con Lui la luce infinita della sua essenza divina che tutto traforma e ci trasforma e trasforma tutto l’universo illuminandolo di una luce radiosa.”
Mi fermo qui per dovere di brevità e passo a dire qualche parola su
2) L’omelia nel tutto della celebrazione eucaristica.
Com’è noto don Giuseppe ha scritto nella Piccola regola della sua comunità che l’Eucarestia è tutto: tutto Dio, tutto l’uomo, tutta la storia, tutto il cosmo.
Infatti, ogni celebrazione eucaristica è un evento, e l’omelia è solo un elemento di questo evento nel quale celebrante e assemblea sono assunti e resi compresenti all’atto eterno in cui si compiono i divini misteri. Non si tratta però di un processo automatico e indolore, non è magia, è fede. L’evento si compie più o meno perfettamente nella misura dell’intensità della fede e dell’attenzione di tutti i partecipanti. E’ per questo che non tutte le celebrazioni raggiungono lo stesso grado di compiuta bellezza, e nemmeno quelle presiedute da don Giuseppe l’hanno sempre raggiunto. Quasi sempre però il miracolo, per così dire, si compiva in occasione delle celebrazioni maggiori dell’anno liturgico.
In queste occasioni solenni, a mio parere, don Giuseppe esprimeva davanti a Dio, quasi dimentico dei presenti, le punte supreme della sua fede, del suo pensiero, della sua penetrazione teologica ed esperienziale del mistero cristiano ed anche del tessuto profondo dell’uomo e della storia. Le esprimeva nell’omelia, ma non solo. Le esprimeva nel tutto della celebrazione, in quel tutto di fede, compunzione, desiderio, adorazione, penetrazione ardente dei divini misteri, luce, gioia, compassione e intercessione per tutti i dolori del mondo che costituiva l’atmosfera abituale di ogni celebrazione, un’atmosfera che si faceva particolarmente densa e coinvolgente in occasione, appunto, delle celebrazioni maggiori dell’anno liturgico. In questi casi l’omelia diveniva il luogo dell’espressione riflessa e partecipata del suo cammino spirituale e degli sviluppi del suo pensiero. Un’espressione, come ho già accennato, profondamente persuasiva e coinvolgente coloro che lo ascoltavano.
Ecco perché a me pare che queste omelie per le grandi celebrazioni del mistero cristiano siano un luogo privilegiato per conoscere non solo il magistero di don Giuseppe, ma anche l’espressione più limpida e decantata della sua personalità.
Lo dico, pur sapendo che questo materiale omiletico, in confronto con tanti altri interventi dotti di don Giuseppe, molto ben documentati, a prima vista potrà apparire piuttosto rozzo. Don Giuseppe parla a braccio, il discorso è più diretto, meno rigoroso, meno formalmente ordinato, eppure non meno incisivo e penetrante. E questo perché, a mio parere, quando è all’altare don Giuseppe esprime il tutto di sé nell’apice del suo rapporto con Dio e con la creatura, gli uomini, la storia, il cosmo. Anzi, quando è all’altare nei momenti supremi dell’anno liturgico, a me pare che parli a Dio più che agli uomini, si effonda, si confessi, si dimentichi, per immergersi nel mistero che sta celebrando e da quell’osservatorio riflettere e presentare a Dio il tutto dell’attualità ecclesiale e mondana, dei pochi che gli stanno intorno e di tutto il mondo.
Qui sta il fascino di questi testi e insieme la difficoltà di parlarne. Insomma a me sembra che questi testi possano dire molto sul profondo della sua personalità.
Certo don Giuseppe stesso ha sottolineato più volte l’impenetrabilità ultima di ogni personalità, un velo oltre il quale non si può andare, perché Dio solo conosce l’intimo più intimo di ogni uomo. Tuttavia, se non possono togliere del tutto quel velo, le omelie di don Giuseppe lasciano intravedere ampi squarci oltre il velo.
Chi era don Giuseppe? A noi che abbiamo condiviso per 40 anni la sua scelta di vita pare di poter dare sostanzialmente una risposta che abbraccia tutto e non esclude nessuna pista di ricerca nei molti ambiti nei quali don Giuseppe ha pensato e operato. Don Giuseppe è stato sempre un orante , in cerca di un’adorazione sempre più pura, spoglia, penetrante, e insieme una sentinella vigile su tutti i dolori e i drammi degli uomini nella società civile e in quella ecclesiale, sul profondo dell’uomo e della storia. I due termini non sono in contraddizione: il mondo c’è, diceva don Giuseppe, ed è una componente essenziale dell’opera del Creatore e Redentore.
Quando il cristiano prega, se la sua preghiera è davvero cristiana, cioè mossa dallo Spirito Santo e offerta al Padre in Cristo, con Cristo, per Cristo, non potrà non abbracciare tutto il mondo e tutta la storia, la storia della salvezza certo, ma in essa è inscritta tutta la vicenda degli uomini e dei popoli, tutto il cosmo. Perciò la preghiera del cristiano sarà lucida sui mali del mondo e della Chiesa e insieme piena di compassione, di amore, di speranza, di incrollabile fiducia nel compimento perfetto, alla fine, del disegno salvifico di Dio su tutte le sue creature.
Orante e sentinella vigile. Nelle omelie delle feste questi due elementi emergono con grande forza. In altre occasioni può prevalere la preoccupazione di trasmettere un insegnamento, un metodo di ascolto della Parola di Dio, un’esperienza della fecondità inesauribile di questa Parola per chi vi si applichi con tutte le forze dell’ascoltare e del fare, o meglio che si applichi a fare la Parola per poi poterla udire e comprendere.
Faremo e udremo. In quest’ordine, prima il fare, poi l’udire (e comprendere), il popolo di Israele al Sinai esprime il suo sì all’alleanza che Dio gli ha offerto. Questo versetto dell’Esodo (24,7): “Faremo e udremo” era caro a don Giuseppe, come a tanti commentatori rabbinici e pensatori, e spesso l’ha commentato.
Anche le omelie delle feste, come quelle feriali, spesso cominciano con l’invito a ripercorrere insieme fedelmente i testi proposti dalla liturgia del giorno. “C’è una provvidenza, dice don Giuseppe, nel semplice fatto che oggi la Chiesa ci proponga questo testo e non un altro.
Insomma anche in queste occasioni solenni l’omileta ripercorre i testi del giorno come ogni giorno; ma è evidente che qui è meno preoccupato di una sua funzione didattica e dà libero corso alla sua riflessione più originale, ai suoi sentimenti, ai suoi desideri. Scava i testi, li confronta con altri testi biblici, e soprattutto col messaggio unitario e globale del Libro; ma alla loro luce confronta anche gli eventi della storia, quelli più attuali o più presenti al suo spirito. Così, quel suo duplice carattere di orante e sentinella vigile, al quale prima ho accennato, si fa molto chiaro.
La sua riflessione scorre sempre intorno a due poli: l’uno egemonico e giudicante, quello della Parola di Dio, l’altro è dato da quel cumulo di problemi e di drammi che travagliano gli uomini nostri contemporanei, i “nostri compagni di viaggio”, come diceva.
Fino all’ultimo infatti don Giuseppe ci ha raccomandato due cose soprattutto: la fedeltà nell’ascolto della Parola di Dio, l’obbedienza alla Parola, quel fare la Parola di cui si diceva prima e, insieme, una vigile costante attenzione alla storia, non alla cronaca. Con tutta la vigilanza della preghiera e del cuore dobbiamo occuparci dei grandi drammi dell’umanità del nostro tempo, ci diceva: l’ingiustizia, la fame, l’oppressione, la guerra, il buio della fede, la fatica della ricerca di verità e di luce, il dramma delle chiese divise, dei popoli che non hanno ancora ricevuto l’annuncio del Vangelo, ecc…
Dall’incontro o scontro della Parola di Dio con questi grandi temi, con questi grandi bisogni degli uomini di oggi, della Chiesa oggi pellegrina nel tempo, scattano illuminazioni forti e affascinanti. Affascinano perché si capisce, si sente, che sono vere, anche se inconsuete.
Spesso le omelie festive di don Giuseppe sovrabbondano di queste luci. Si tratta di frammenti, frammenti di riflessioni sul profondo dell’uomo e della storia, della guerra e della pace, sul Concilio, sul destino di cristianità che sembrerebbero scomparse, sulla speranza teologale, sulla potenza dell’intercessione e della preghiera che la divina condiscendenza sollecita e accoglie, rendendola capace di rovesciare il corso di eventi rovinosi, all’apparenza irreversibili, e perfino di cambiare i giudizi di Dio. Una volta, in una celebrazione del Natale a Betlemme ci disse: “Io credo che le chiese siano immortali, non tanto per le opere grandiose che possono aver compiuto nel loro passato, quanto per le esperienze di Dio che hanno avuto i loro santi. Queste esperienze sedimentano nel tessuto profondo della storia come una brace sempre pronta a riaccendersi per la preghiera, il desiderio, la speranza di oggi”. A Betlemme il pensiero, è ovvio, correva a quelle tante frazioni di minuscole cristianità orientali presenti in Terra santa, ma non solo. Questo pensiero doveva riaccendere il coraggio, la speranza e la preghiera per una nuova fioritura di vita cristiana e di santità anche nelle nostre chiese di antica cristianità, in Italia e in Europa.
Nel disegno di Dio il destino dell’uomo è la deificazione in Cristo, per Cristo, se non rifiuta il dono, se ne accetta le condizioni.
Più si approfondisce la contemplazione del mistero di Cristo, più si scoprono anche le ragioni di coloro che non possono credere. Fin dal Natale 71 don Giuseppe ci diceva: alienate da Cristo le cose non sono, tutto è non senso e illusione. In questo non si ingannano coloro che considerano il tessuto profondo della realtà a prescindere dal Cristo. Ma il Cristo c’è. Questa è la certezza suprema della nostra fede, il Cristo c’è e già ora è il centro ontologico, fisico, di una fisicità sovrannaturale, di tutto l’universo, di tutta l’umanità, già ora tutte le genti sono concorporee a Cristo, dal momento che il Padre in Cristo tutti ha benedetto prima della creazione del mondo.
Questi pensieri ritornano insistentemente nei primi come negli ultimi anni della predicazione di don Giuseppe. Sono pensieri attinti alle Scritture, è evidente, specialmente ai grandi testi cristologici del Nuovo Testamento, attinti nella fede e per la fede; ma sono anche stimolati dal bisogno fondamentale, anche se ignorato, della nostra umanità smarrita.
Che cos’è la fede? Cito ancora pensieri estratti da omelie natalizie: La fede non dipende dalla volontà dell’uomo, è dono puro di Dio, è il brillare di una luce divina, la luce dello Spirito Santo che dà certezza all’anima; ma la fede non è una luce continua, brilla a intermittenza. Quando brilla bisogna accoglierla e custodirla, quando sembra nascondersi bisogna attenderla e desiderarla con tutta la tensione del desiderio e della supplica.
La fede è la facoltà radicale dell’uomo nuovo in Cristo, viene prima e sostiene tutte le articolazioni della sua personalità. Vivere di fede significa puntare con tutte le forze sulla rinascita battesimale, sulle energie divine, trasformanti immesse in noi dal battesimo e farne esperienze via, via crescenti in un dinamismo incessante di vita nutrita dalla Parola e dai Santi Misteri.
Gli uomini di fede sono le sentinelle del popolo cristiano, vedono un po’ al di sopra dell’orizzonte, ricordano agli uomini le promesse di Dio e a Dio le sue promesse, affrettano i tempi del compimento con l’ardore del desiderio e la dolce sottomissione al beneplacito di Dio.
La fede non è facile, non lo è mai stata come si vede nelle storie dei padri e dei santi. Oggi poi la fede è più che mai insidiata per contingenze storiche e culturali, ma ancor più per ragioni intrinseche al messaggio cristiano: le profezie non si sono realizzate, il mondo sembra sempre più regredire in una nuova barbarie, violenza, oppressione, edonismo, spargimento di sangue, menzogna e ipocrisia, cinismo, indifferenza al dolore di tanta parte dell’umanità.
Quando abbiamo cominciato la nostra vita di comunità, siamo negli anni 50, il cristianesimo pareva contrastato, dice don Giuseppe, ma la sua luce brillava ancora nel nostro paese e nel mondo, era forte la speranza missionaria alla quale noi pure partecipavamo. Ora invece il cammino sembra invertito, avanzano altre religioni, avanza la mondanità, il rifiuto del disegno di Dio sull’uomo, il rifiuto della sua pace e della sua gioia. Insomma oggi la fede è più difficile, ma una fede facile non è fede.
Questo è il punto: oggi è l’ora della fede pura e dell’adorazione pura. Non è vero che Dio si sia ritirato dall’umanità, siamo noi piuttosto che zoppichiamo su due piedi.
Eppure, dal momento dell’incarnazione Dio è entrato nel tessuto profondo della realtà creata, nulla può sfuggirgli. Tutto ci è stato dato, a patto di accoglierlo e di volerlo con un sì incondizionato come quello della Vergine.
Del resto noi non sappiamo cosa sia avvenuto nel tessuto profondo della storia in questi duemila anni di cristianesimo: il mistero di Cristo è presente, opera e sedimenta nel profondo ben oltre le nostre capacità di vedere e constatare.
Queste considerazioni piene di fede e di speranza teologale don Giuseppe le ha svolte nelle omelie natalizie degli ultimi anni, i più bui forse della nostra storia. Come ebbe a dire a Pordenone nel “94, il suo pensiero ha compiuto un percorso, in certo modo, circolare e l’ha riportato alla fine della vita “alle origini del suo spirito, ingenuo, se volete, ma dell’ingenuità essenziale della fede. Fede poi tante volte maturata, consolidata, messa a confronto e a provocazione con la cultura ambiente, che però si è sempre conservata, per grazia di Dio, nella sua ingenuità essenziale”.